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domenica 17 aprile 2011

Gli intrusi

Da anni quel grande palazzo alla fine della strada era stato una provocazione per la nostra gente. Venti anni fa, almeno, era un palazzo come altri, abitato da famiglie, semplici affittuari. Ospitava un negozio di frutta e verdura al piano terreno. Quindici anni fa inizio a svuotarsi. Dissero che sarebbe stato demolito, che era infestato dagli scarafaggi e le fondamenta non erano più stabili. Tutte balle! Il palazzo è ancora lì, vuoto in apparenza, pieno invece di chissà quali misteri. La demolizione non c’è mai stata e non doveva esserci in effetti.
Il palazzo finì per essere uno come tanti proprio vent’anni fa. Ricordo che era di giugno.
In un giorno di giugno sei persone entrarono nel caveau della Gold Enterprise, una multinazionale che commerciava in gioielli, oro e preziosi, di sicuro la più grande azienda della nostra città. Tutte le volte che parlano della nostra città lo fanno solo per rammentare quel colosso dei metalli preziosi e della vanità.
Come dicevo, quelle sei persone se ne andarono dal caveau con una quantità enorme di roba luccicante, per un valore di miliardi. Per giorni la polizia cercò quelle persone e il loro bottino. Una settimana dopo sei persone furono trovate morte in uno degli appartamenti del palazzo in fondo alla strada. Si erano ammazzate fra loro. Fecero alla svelta a fare tornare i conti: sebbene la rapina fosse stata compiuta con i volti coperti, le telecamere del deposito fissarono le corporature dei ladri, perfino un giubbotto di una delle sei persone morte era lo stesso indossato da uno dei morti. Insomma erano loro. Trovati i ladri, ma non la refurtiva.
Iniziarono a girare voci insistenti che volevano i gioielli e l’oro nascosti da qualche parte nel palazzo. Ad avvalorare l’ipotesi la piantina del palazzo in questione ritrovata in una borsa vicina ad una delle vittime.
Per mesi venne cercata la refurtiva. Ogni giorno agenti di polizia entravano e uscivano dal palazzo con mandati di perquisizione. Furono giorni orrendi. Venivamo svegliati la notte da irruzioni improvvise, non potevamo uscire dal palazzo senza essere perquisiti.
Poi le cose parvero calmarsi. Fu un’illusione. Ad un tratto non si parlò più di tesori nascosti, ma di scarafaggi e muri cadenti. Ai poliziotti si sostituirono i geometri e i tecnici sanitari per fare rilevazioni. Vennero trovati muri fatiscenti e colonie di insetti. Vennero sollevati casi politici, caddero assessori alla casa, ma non cadde il palazzo. Di lì a poco il municipio ci fece sgombrare. Nessuno di noi poté ribellarsi, eravamo per la maggior parte affittuari, senza potere economico e contrattuale e poi ci venne offerta un’altra abitazione. Non rifiutammo. Nel giro di anno ci trasferimmo in un palazzo proprio di fronte a quello vecchio.
Accettammo e lì iniziò tutto.

Il nostro stupore aumentò con il passare dei mesi e poi degli anni. Il palazzo non veniva abbattuto, e due anni dopo la nostra dipartita, addirittura, vedemmo entrare un ometto con due valigie all’interno del palazzo. Non l’avevamo mai visto prima. Ci parve un uomo piccolo e buffo, ma la cosa più strana fu che non lo rivedemmo più. Cioè non lo vedemmo più uscire. Di tanto in tanto, con regolarità, però vedevamo entrare ed uscire operai e fattorini, segno di ripresa vitalità del palazzo. Quegli uomini portavano cibarie e attrezzi, eseguivano lavori all’interno e parevano avere una sorta di obbligo del silenzio. “Che andate a fare lì dentro? Per chi lavorate? Conoscete quell’ometto a cui portate questa roba?”. Nessuna risposta. Un sorriso o uno sguardo per far capire che non avrebbero mai parlato.

Allora ritornò fuori la storia del tesoro. Per molto tempo nessuno ne aveva fatto menzione. D’improvviso però scorgemmo strani cambiamenti nel palazzo. Affacciandosi dalle finestre del nostro palazzo dirimpetto, vedemmo che gli appartamenti del quinto piano  erano stati interamente occupati ed i muri abbattuti per far posto ad un unico grande salone.
Assistemmo in quei giorni ad un andirivieni di muratori, imbianchini e perfino pittori intenti ad affrescare il soffitto.
La curiosità ci prendeva. Riuscimmo a fare amicizia con uno degli operai che lavoravano all’interno, gli offrimmo una birra e riuscimmo a farci dire qualcosa.
1- Come mai stavano facendo dei lavori all’interno di un palazzo che doveva essere demolito?
L’ordinanza di abbattimento del palazzo era stata revocata. Non erano chiari i motivi.
2- Chi era  l’uomo dall’aspetto buffo?
Il nome non era conosciuto. Secondo alcuni si trattava di un eccentrico miliardario, forse straniero, che aveva comprato l’intero palazzo, riuscendo a far revocare l’ordinanza di abbattimento.
3- Che vuol farci con il palazzo?
Chiaro: cercare il tesoro nascosto.

I cambiamenti che intanto subiva il palazzo ci facevano sempre più sorgere il sospetto che le intenzioni dell’eccentrico e solitario ometto fossero serie. Le finestre del primo, secondo e terzo piano del palazzo vennero chiuse con potenti inferriate, mentre nel giardinetto antistante il portone presero fissa dimora sette dobermann neri, accuditi da personale esterno, che, a quanto ci parve di vedere, non aveva facoltà di entrare all’interno del palazzo.
Tempo dopo anche l’andirivieni di operai cessò. L’ometto buffo, evidentemente, si era creato l’ambiente giusto per poter vivere all’interno del palazzo e lì divertirsi a cercare il suo tesoro.

Non eravamo dello stesso avviso. Il palazzo apparteneva anche a noi. Noi ne avevamo fatto la storia, lì erano i nostri ricordi, non avevamo nessuna intenzione di lasciare a quel tizio annoiato e sicuramente già ricco di diventarlo ancora di più. Quel tesoro non avrebbe cambiato la sua vita, ma la nostra sicuramente.
Fu per questo che organizzammo la prima escursione.
I due ragazzi si chiamavano Ringo ed Chicco. In effetti erano stati un po’ stupidi o quantomeno ingenui. Tutto il palazzo e forse il quartiere intero era a conoscenza delle loro intenzioni. Si sentivano degli esploratori più che dei ladri.
“Troveremo il tesoro - dicevano - lo troveremo e lo divideremo con tutto il quartiere”
I due partirono in una notte fredda di febbraio. Li salutammo poco prima della “missione”, come la chiamavano loro, nel bar del quartiere. Non era certo la prima casa che svaligiavano. Erano conosciuti anche dalla polizia e potevamo tranquillamente dire che erano i più esperti del settore. Le ragazze del bar li riempirono di baci, lanciando la promessa di offrirsi al loro ritorno. Tutti noi provammo una certa invidia, mista sempre ad una sincera ammirazione per i due.
Salutarono con una pacca sulle spalle agli amici, una più in basso alle ragazze e s’avviarono verso il palazzo.
Fu l’ultima volta che li vedemmo.

Li conoscevo bene, così come le loro madri e i loro padri che piansero la loro scomparsa. Attendemmo più di due settimane. Nessuno denunciò la scomparsa. Si erano sempre intromessi in una proprietà altrui e tutti quanti ne eravamo a conoscenza. Tutti eravamo loro complici.
Non sapevamo cosa fosse successo. C’era un unico modo per saperlo.

Da quella sera di febbraio erano passati diversi mesi. Con oscena provocazione le stanze del palazzo, le nostre stanze, gli appartamenti della nostra vita, si illuminavano e riprendevano vita. Il grande salone del quinto piano si allargava, arricchendosi di dipinti e lampadari. Impunemente di fronte ai nostri occhi. Teneva le finestre di quel salone vigliaccamente aperte, per mostrare tutta la sua potenza e ricchezza, la sua impunibile arroganza e l’impotenza di noi povera gente.
Dovevamo entrare nel palazzo, recuperare il tesoro e possibilmente anche il buffo miliardario e farci dire che ne era stato dei due ragazzi che si erano avventurati nel palazzo.
L’idea di una seconda incursione all’interno, però non venne ad uno del quartiere.
Un tizio venuto da fuori città, capelli corti e grossi occhiali scuri, maglietta verde da calciatore americano entrò una sera al bar da cui era partita la spedizione di Ringo e Chicco. Stavamo giocando al biliardo, lui s’avvicinò e prese a parlare.
“Scommetto che ci avete provato ad andare in quel palazzo e vi hanno buttato fuori”.
Lo guardammo male e non lo riducemmo in poltiglia per una serie di motivi fra cui vanno annoverati la sua non indifferente stazza fisica, la sensazione di aver ascoltato le parole di un deficiente, categoria protetta anche nella nostra zona, nonché il presentimento che se qualcuno si presenta con una provocazione del genere deve avere qualcosa da suggerire.
Lo aveva.
“Non voglio sembrarvi maleducato, ma ho la sensazione che qualcuno abbia provato a entrare li dentro, senza il benché minimo piano”...
“Tu invece lo avresti?”.
Prima delle parole si fece precedere da un largo foglio. Sembrava una cartina, la planimetria di qualcosa, forse del palazzo del tesoro.
“Ci butterei le palle che avete provato ad entrarci cercando di ricordare com’era prima il palazzo. Beh, sappiate che ora è diverso! Le cose cambiano. Questo è il progetto di massima presentato al catasto per l’approvazione. Quello che troveremo all’interno sarà qualcosa a metà fra il palazzo del vostri ricordi e dei desideri del nostro miliardario mister Dorian”.
“Dorian? Sarebbe questo il nome di quell’ometto?”
“Esatto! Si chiama così, adesso che lo sapete suppongo che la visione della vostra vita cambi radicalmente! Non so neppure io chi sia questo signor Dorian, non frequento l’alta società, so solo che ha un sacco di soldi”.
“Faresti bene ad avere un altro tono. Credo che dovresti presentarti,  sai? - disse Il Biondo - Che ci fai qui, che vuoi da noi?”.
“Voglio trovare il tesoro”
“Capiti male, dolcezza!”
“Si direbbe che i malcapitati siete voi. Sbaglio o fra di voi c’è qualcuno degli sfrattati dal palazzo? Vi hanno buttato fuori proprio al momento giusto, eh? Che vi hanno inventato per farvi uscire? Scarafaggi? Ragni? Muri cadenti?”
Era veramente odioso, a tutti fremevano le mani per la voglia di schiaffargliele sul muso.
“Il tesoro non è tuo! - sentenziò Stecca - Quindi che vuoi?”.
“Il tesoro è più mio che vostro, se vogliamo essere precisi. Ve li ricordate quei sei della rapina alla Gold Enterprise? Bene, fra quelli c’era mio fratello! Io ero il settimo”.

Stecca e il Biondo capirono che avevamo a che fare con un professionista. Era venuto da noi per avvisarci delle sue intenzioni di andare a riprendersi il tesoro. Aveva bisogno di altre persone. Fidate, intelligenti e soprattutto con buona memoria. Qualcuno che ricordasse com’era sistemato l’interno del palazzo prima che quel tizio, Dorian, vi mettesse mano.
Non dovevamo parlarne con nessuno. Il bottino sarebbe stato spartito fra poche persone: il professionista venuto da fuori e quelli del biliardo: il sottoscritto, Stecca e il Biondo. Totale quattro persone. L’uomo venuto da fuori ci sapeva fare, era strano, ma sapeva come guadagnarsi la fiducia.
“Se non vi fidate di me, portatevi dietro delle armi. Anch’io avrò le mie difese, voi comunque sarete sempre in vantaggio”.

Partimmo in una sera di fine agosto. Non vi furono scene propiziatorie al bar, niente pacche sulle spalle. La regola del silenzio avrebbe propiziato meglio di qualsiasi altra cosa. Aprimmo un tombino in una strada laterale. Vi infilammo dentro. Il buio e il rimbombare dei nostri passi. Non riuscivamo a parlare, mentre l’uomo venuto da fuori, che scoprimmo si chiamava  Hernan, ci conduceva.
Avevo paura, mi chiedevo cosa ci facessi anch’io in quella spedizione. Certo se non mi fossi trovato quella sera al biliardo...In un certo senso mi ero quasi sentito in dovere di esserci. Realmente non mi interessava sapere cosa fosse successo a Ringo e Chicco, forse avevano trovato il tesoro e se ne erano fuggiti, forse erano morti li dentro, insomma non lo volevo sapere! Sapevo solo che ero condannato a vivere in quel quartiere e per tutta la vita avrei fatto quello, e anche il mio diploma di maturità duramente conquistato, nonché la fedina penale pulita, virtù alquanto rara dalle nostre parti, non mi sarebbe servita a molto. Non mi restava che quel tesoro, roba che un po’ mi ricordava un vecchio romanzo che mi fecero leggere a scuola, per quanto il mio quartiere non avesse niente di tropicale e romantico.
Ero lì, con Stecca, il Biondo e un tizio che mi stava alquanto sul culo. Sentivo anche una certa responsabilità nei riguardi degli altri due miei amici di biliardo. “Per fortuna che abbiamo un ragazzo intelligente come te - mi aveva detto Stecca - ci vuole qualcuno con un po’ di cervello per fare cose del genere per non farselo mettere in tasca da quel miliardario e da Hernan”. Ne ero lusingato, certo, ma le lusinghe non mi toglievano la strizza.
Dopo mezzo chilometro di buio e umido, Hernan si fermò, ricontrollò una mappa, deviò a destra e ci indicò una scala di ferro.
“Salita!”.
Salimmo le scale ed arrivammo ad una botola da aprire. Uscimmo in un cortiletto stretto e caldo. Il vecchio cortile del palazzo, quello di quand’ero bambino. Il cortile interno. Eravamo dentro il palazzo e avevamo fregato quei maledetti doberman all’entrata.
Sopra di noi brillavano un paio di stelle, confinate in un angolo del cortile interno. Parevano di buon auspicio.
La porta per l’ingresso nel palazzo era aperta. Entrammo, riuscendo per un attimo a commuoverci per essere giunti nel luogo della nostra gioventù.

Una rampa di scale, più squallida e cupa di come la ricordavo. Silenzio, i nostri passi più silenziosi si fermarono al quarto piano. Non ricordavo quei corridoi così sinistri e spenti, file di porte chiuse a chiave. Prendemmo un altro corridoio. L’uomo aveva fatto abbattere alcuni muri e prolungato a dismisura il corridoio. Lungo, molto più lungo di come lo rammentavo. Di come ognuno di noi lo ricordava. Procedeva fra meandri e angoli, in un giro tortuoso e inquietante. Colori bianchissimi alle pareti, si alternavano a porte colorate di nero. Quindi arrivammo a quell’osceno corridoio. Rimanemmo fermi di fronte a quell’improvvisa visione che si profilava dietro l’ennesimo angolo. I nostri occhi si rifiutavano di volere vedere quella scena orrenda: una lunga fila di teche di vetro verticali, con all’interno....le parole si gelano al solo pensiero di quelle figure messe dentro quelle orrende teche di vetro.
La poca luce e la scarsa voglia di verificare non ci permettevano di verificare se quelli, all’interno di quelle scatole trasparenti fossero corpi umani veri. Ero terrorizzato, come tutti gli altri non mi aspettavo niente di tutto questo. Passavamo al centro, cercando di puntare lo sguardo alla fine del corridoio. 
“E’ un segno positivo - diceva la nostra guida - ci vogliono spaventare, allora c’è dentro qualcosa di interessante”.
Cercavamo di rincuorarci a quelle parole, evidentemente giuste, aumentando il passo, quasi a correre.
“Non guardate, non guardate!”.
Era certo un ottimo consiglio, di certo la cosa più saggia da fare. Avevamo creato artificialmente un silenzio innaturale, come se fosse il rimedio migliore. Guardare avanti, camminare. Fu purtroppo proprio quel silenzio a consentirci di udire quell’orribile mormorio, che altrimenti non sarebbe stato possibile ascoltare.
“Guardami, guardami”. Nessuno di noi aveva parlato. Quella non era la voce di uno di noi.
“Guardami”.
Udimmo ancora l’invito, cercammo di non cadere in quella trappola, ma la cosa non riuscì al Biondo. Si voltò, guardò, e si mise a urlare e correre per l’intero corridoio.
Gli andammo dietro, sia per seguirlo, sia per non pensare a quello che evidentemente aveva visto il nostro compagno di avventura.
Si fermò ai bordi di una rampa di scale. Rannicchiato e piangente. Hernan lo prese per il colletto della maglia.
“Vuoi farci scoprire? Che ti metti ad urlare?!”
“L’ho visto, vi giuro che l’ho visto...Parlava, mi ha guardato negli occhi e parlava”.
“Qualunque cosa tu abbia visto o creduto di vedere te la devi scordare - lo riprese duramente Hernan - se qui dentro c’è il bottino della Gold Enterprise è chiaro che ci saranno anche dei congegni particolari per spaventare chiunque entri qui dentro. E’ evidente che il nostro Dorian non vuole essere disturbato nella sua ricerca del tesoro”.
“Ti giuro che quello era vero e ...”
“Non lo voglio sapere! - lo fermò Hernan - non lo dobbiamo sapere!”.

Salimmo la rampa di scale. Le urla del Biondo non avevano risvegliato l’attenzione di Dorian. Camminammo per un altro corridoio, con relativa calma. Non arrivava nessun rumore. Tutto in apparenza continuava ad essere morto e statico. Non trovammo niente il quel corridoio. Stanze chiuse a chiave, forse semplicemente perché non utilizzate. Il quinto doveva essere il piano dove Dorian aveva abbattuto dei muri per farci il suo salone da mostrare ai dirimpettai. Decidemmo di raggiungerlo. Forse non sarebbe stato male cercare Dorian prima ancora del tesoro. Ci sarebbe servito più di qualunque altra mappa.  Forse era nel grande salone.
Seguimmo una serie di porte. Soltanto le prime erano chiuse, quelle nel mezzo, invece, erano aperte. Entrammo nella prima. Erano camere comunicanti ed erano arredate come se fossero uffici di rappresentanza. Eleganti, con evidente stacco dallo squallore del corridoio.  Vi erano dei quadri alle pareti. Mi avvicinai per guardarli. Mi accorsi che tutti riproducevano il palazzo, visto generalmente dall’interno; quindi il corridoio, il cortile e perfino la stessa stanza dove ci trovavamo. L’uomo che li aveva fatti o fatti fare doveva nutrire una vera ossessione per quel luogo e doveva essere vero, se a quanto pare, Dorian, il ricco compratore del palazzo non si era mai visto uscire da lì. Stavo per distaccare l’occhio da quei quadri così ripetitivi, quando l’attenzione si soffermò su un particolare di uno di essi. Era uno che raffigurava una stanza del palazzo. In mezzo a questa, catturato dal pavimento “affogava” un uomo. Un’immagine strana e terrificante che niente aveva a che spartire con la razionalità. Com’era possibile annegare in un pavimento? Stavo per richiamare i miei compagni sul particolare del quadro, quando Stecca fece cenno di proseguire verso una stanza attigua da dove, secondo lui, proveniva un odore familiare. Entrammo nella stanza. In tutto e per tutto era uguale alla precedente, con gli stessi mobili, lo stesso colore di pavimento e i soliti quadri. Mi avvicinai per osservare il quadro con il particolare che avevo notato in precedenza. Una strana prudenza mi prese nel poggiare i piedi a terra. Sondavo il terreno con la punta delle scarpe, atteggiamento che fu notato da Stecca e Hernan. “Ma che fai?” mi chiesa la nostra guida. “Credo che dovremo stare attenti a dove mettiamo i piedi”.
Fecero un gesto della testa, sorridendo, per sottolineare la mia esagerazione. Arrivai di fronte al quadro del pavimento, ma notai che stavolta non era presente nessun annegato.
L’attenzione venne invece conquistata da un portacenere con tanto di sigaretta ancora fumante posta su un tavolino all’angolo.
“C’è stato qualcuno. C’è stato Dorian. Lui è qui vicino”.
Ci armammo. Se il riccone era nei paraggi meglio tenersi in guardia. Aprimmo quindi l’altra porta. Con terrore notai che eravamo entrati in quella stanza o corridoio riprodotto dal quadro.
“Stiamo tutti attenti a dove mettiamo i piedi”- dissi.
“Ancora con questa storia?” - ironizzò Stecca.
“Vi dico di stare attenti”.
Vedevo invece con profondo dispiacere che se ne fregavano del tutto dei miei consigli. Procedevano tranquilli in mezzo alla stanza - corridoio, senza badare o dove mettevano i piedi.
“Il terreno potrebbe franare” - aggiunsi.
“La vuoi smettere?”- disse stavolta il Biondo. Lo vidi avanzare con fare deciso, senza esitare nel mezzo della stanza, mentre rispetto agli altri me ne stavo indietro. Fissavo con terrore il cammino del Biondo, quando uno squarcio come di ghiaccio rotto udii sotto i piedi di Stecca. I nostri occhi non credevano all’immagine del nostro amico risucchiato dal pavimento. Lo sentimmo urlare mentre affondava. Era caduto in un trabocchetto. Una sottile lastra di vetro, colorata come il resto del pavimento, tale da sembrare marmo, si era rotta sopra una vasca d’acqua scura.
“Aiuto, c’è qualcosa qui dentro”.
Ci precipitammo ai bordi di quella vasca nascosta, facendo attenzione a camminare realmente sul marmo. Lo vedemmo precipitare dentro l’acqua scura, quasi risucchiato.
“La torcia. Illumina!”
Come il Biondo puntò la torcia verso l’acqua di colpo vedemmo strani pesci radunarsi attorno al corpo dell’annegato.
Hernan si tolse il giubbotto e se lo avvolse tutto intono ad un braccio, coprendo anche una parte della mano.
“Tenetemi forte i piedi” – ordinò.
Facemmo quel che disse, senza chiederci perché.
Immerse il braccio nella vasca. Lo vidi stringere i denti.
“Tirate su adesso”.
Radunammo tutte le forze: portammo fuori il braccio di Hernan e quello di Stecca. Afferrammo il braccio sinistro, poi quello destro e lo tirammo fuori, mentre una serie di orrendi pesci pieni di denti continuavano ad aggrapparsi ai brandelli dei suoi pantaloni. Era pieno di morsi, ma era ancora intero. Se quei pesci non lo avevano divorato era solo merito della prontezza di riflessi di Hernan.
Mi chiedevo che senso avesse tutto ciò. La vasca con i pesci, nascosta sotto il pavimento, il quadro che in un certo senso avvertiva del pericolo per poi smentirlo in un’immagine seguente, la visione dei corpi nelle teche di vetro, così orrende che non riuscimmo neppure a verificare se erano autentiche. Tutto sembrava fatto di proposito per spaventare chi si fosse avventurato all’interno. Mi chiedevo perché Dorian avesse sprecato tutto quel tempo per costruire questi trabocchetti, quando poteva utilizzarlo per cercare il tesoro.
 “Se ci sono tutte queste trappole è solo perché c’è qualcosa da difendere”- era l’opinione di tutti gli altri.
Era l’unica cosa che ci spingeva avanti a tentare il tutto per tutto.
Da lì partì l’idea che se quella vasca doveva stare a proteggere qualcosa d’importante, forse era un passaggio.
“Quanto è profonda quella vasca Stecca?”- chiese Hernan qualche minuto dopo aver tirato fuori il nostro amico.
“Non ho proprio avuto l’occasione di verificare”
“Non sei andato giù del tutto, però”.
“Mi era parso di toccare qualcosa con i piedi”.
Hernan chiese la torcia al Biondo. Illuminò la vasca, vedevamo quegli orrendi pesci sguazzare frenetici avanti e indietro”
“Ci vorrebbe un bastone, un’asta per tastare il fondo”.
Ritornammo nella stanza precedente. Nel centro stava un tavolino basso e lungo poco più di un metro. Non bastava. L’asta delle tende. Portammo un tavolo più alto vicino alla finestra, ci montammo sopra e sradicammo l’asta. Ritornati nella stanza seguente l’immergemmo nella vasca. Arrivammo a toccarne il fondo. Non più di un paio di metri. Il fondo brillava, forse era fatto di vetro. Continuammo a colpire con l’asta, con tutta la forza che avevamo. Doveva essere vetro, quasi certamente. Insistemmo ancora, sentivamo incrinarsi il pavimento. Ancora qualche altro colpo. La crepa si spaccò. Insistemmo ancora, fino a quando il fondo si schiantò del tutto, l’acqua fuoriuscì, portandosi dietro quei pesci. Facemmo luce all’interno del buco.
Al di sotto di quello che una volta era un fondo di vetro pareva aprirsi una larga stanza, probabilmente uno degli appartamenti del quarto piano.
Vi lanciammo il tavolino basso, per verificare l’altezza e terminare di rompere il vetro.
Appoggiammo l’asta al bordo del pavimento rotto e l’utilizzammo per scendere al piano inferiore.

A differenza di quella con il buco nel pavimento, questa stanza era completamente buia e priva di qualunque arredamento. La prima sensazione era che avevamo fatto una cazzata, abbandonando il piano di sopra. Hernan ci ricordò però che proprio al quarto piano del palazzo era avvenuta l’ultima riunione dei rapinatori e che doveva esserci un motivo perché quelle stanze avevano tutte la porta sul corridoio chiusa.
Forse eravamo sulla strada giusta.
Poi un dubbio. “Come facciamo se il tesoro fosse nascosto dentro il muri? Non abbiamo niente per abbatterli”.
“I muri non c’entrano niente - ribatté Hernan - credi che uno come Dorian, con tutti i miliardi che ha, non li avrà già passati ai raggi x?”
“Allora che facciamo? Dove li dovremmo cercare quei diamanti?”.
“Dove li nasconderesti tu più di trecento  sacchi di roba luccicante?”.
Non rispondemmo. Fummo subito colpiti da quella cifra incredibile: trecento sacchi fra diamanti, pietre preziose e roba simile. Non avevamo mai saputo la consistenza del bottino della più clamorosa rapina di tutti i tempi della nostra città.
La somma ci distrasse, così che Hernan continuò: “Dove nascondereste tutta quella roba che luccica?”
“In mezzo ad altra roba che luccica” - risposi.
“Bravo ragazzo! Adesso sai cosa dobbiamo cercare”.

Girammo per tutti i bui appartamenti del quarto piano, puntando le torce ovunque per vedere se riflettessero su qualcosa. Sentimmo di aver sbagliato e che avremmo dovuto innanzitutto cercare nel grande salone del quinto piano. Se Dorian aveva trovato il tesoro probabilmente lo aveva nascosto lì; per poterselo godere quando voleva, tenerlo costantemente sotto controllo e sbatterlo in faccia ai suoi dirimpettai.
“Non l’avete ancora capito a cosa serve quel salone, vero? - ci riprese Hernan - quello è uno specchio per le allodole. Pensate che Dorian possa aver costruito un salone come quello e poi chiamato qualcuno a nascondergli i diamanti? C’erano spesso operai in quel salone, era l’unica sala del palazzo dove c’era qualcuno oltre lui. Lo fa per farci andare i coglioni come noi. Tutto è fatto apposta per crederlo: la lucentezza della grande sala, i trabocchetti prima di arrivarci, le stanze che sembrano abitate”.
“Allora dove sarebbe nascosto secondo te? Non avevi detto che tuo fratello era uno dei rapinatori? Non ti ha detto niente, mi sembra molto strano, caro mio...”
Il tono di Stecca era quanto meno amichevole nei confronti della nostra guida. Hernan però non ebbe il tempo di rispondere. Qualcosa di più strano ci apparve alla vista. Alla fine di un corridoio, nel mezzo di una luce bianca e artificiale si stagliava una figura. Pareva muoversi e non doveva essere a più di venti metri da noi. Fatta soltanto d’ombra, era come seduta su qualcosa che si muoveva, forse una sedia a rotelle. Non la vedevamo in volto.
Non doveva esserci apparsa all’improvviso, forse ci fissava già da qualche istante, forse aveva seguito tutta la nostra conversazione.
“Chi sei?”
La figura non rispose se non con una risata secca e vecchia. Mosse le mani sulle ruote e arretrò uscendo dalla nostra vista.
Gli corremmo dietro, per quanto potesse sembrare strano riuscimmo solo a vederlo scappare sul suo trabiccolo. Si voltò verso di noi, prima di entrare in un ascensore e andarsene. Vidi il suo volto liberato dall’ombra ridere verso di noi e forse ridere di noi.
Prima che raggiungessimo la porta dell’ascensore se ne era partito, lasciandoci il suo atroce sorriso in ricordo e una nuova paura: quella di sapere che ci aspettava. 
........(continua)..........

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