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mercoledì 25 maggio 2011

Nero dei Lontanmorti

Capitolo 1

LA STRADA PERDUTA


L’umanità è pagana. Mai qualche religione l’ha penetrata. E non è nell’animo dell’uomo comune il poter credere alla sopravvivenza di questa stessa anima. L’uomo è un animale che si sveglia, senza sapere dove né perché.
Fernando Pessoa, l’ Ora del Diavolo

Le epigrafi prima di un romanzo sono un segno di invidia. Significa che qualcuno, prima dell’autore del libro, è riuscito a concentrare in poche righe quello che lo scrittore ha dovuto dire in centinaia di pagine.
Raul Butragueno Fabregas


Nel suo fondamentale e imperdibile saggio del 1986, dal titolo  Nessuno vedrà la fine del mondo, il filosofo Raul Butragueno Fabregas, sottolineava come l’inverosimile si distingua dall’impossibile per “una più decisa sfiducia nel reale”. Così, mentre una cosa impossibile è parte del mondo fantastico, l’inverosimile “è l’irrealtà che pezzo dopo pezzo si avvicina al reale, mangiandoselo vivo, trasformando un qualcosa che prima veniva ritenuto impossibile e che diviene probabile, sebbene ridicolo, strano, bizzarro”. L’inverosimile è, per dirla con le parole del famoso pensatore, “la lebbra della realtà”.
Il tizio che era riuscito a rubare un pezzo di un quadro da un museo fiorentino, sotto gli occhi di tutti, era uno che quel libro doveva esserselo letto più e più volte. Sapeva benissimo infatti che l’inverosimile è accettato solo dai bambini e dai dementi, ma usato solo dai geni, e pertanto, forte di questa convinzione e di una smisurata fiducia in se stesso, aveva portato a termine e con successo, l’inverosimile impresa.
Era passato dall’entrata di servizio, quella usata dai dipendenti e dai raccomandati che non comprano il biglietto, presentandosi come il giornalista Mancinelli, atteso dal direttore del Museo, dottor Massimo Basico Gianparnassi. Il soggetto aveva tirato fuori dalla tasca un lettore mp4, premuto un tasto e fatto partire la registrazione di un video con la figlia del direttore che chiedeva al padre di fare quello che diceva la persona che si sarebbe trovato di fronte. La richiesta era che venissero portate in direzione le chiavi del deposito del museo.
Il direttore aveva accettato, terrorizzato dall’idea che accadesse qualcosa di terribile alla propria figlia. Fatto questo e ottenute le chiavi, il direttore venne legato alla sedia, imbavagliato, col telefono staccato e il cellulare allontanato.
Il ladro aveva raggiunto i depositi, indossato un camice bianco, fatto un sorriso al custode di servizio. Una volta entrato aveva preso un quadro, l’Adorazione del pittore fiammingo Van Holsing e ne aveva asportato una parte.
Se ne era andato con il prezioso ritaglio chiuso dentro una valigia, aveva fatto un cenno di saluto al custode e consegnato le chiavi del deposito, quindi, una volta allontanatosi, aveva chiamato da una cabina telefonica e avvertito di liberare il direttore, ancora prigioniero nel suo ufficio.
Inevitabile che la notizia facesse il giro del mondo.
Subito i giornali si fecero mille domande e nessuna rilevante.
Si chiesero tutti con poca fantasia come avesse fatto, che faccia avesse il ladro, se le telecamere l’avessero ripreso, come avesse fatto a mascherarsi, se era vero che indossasse una parrucca, se, come sembrava da quel che diceva un custode, aveva una cicatrice ben vistosa sul collo e se quel segno non fosse una falsa indicazione per sviare l’attenzione. Molto più rare domande del tipo:
-     Perché coinvolgere il direttore?
-     Perché aveva scelto quel quadro?
-     Perché ne aveva asportata soltanto una parte?
-     Perché si era limitato a rubare proprio quel quadro quadro, fra l’altro non il più famoso?
-     Perché tutto quello sfacciato senso dell’umorismo?
E soprattutto:
-     Come non notare il fondamentale apporto dell’opera di Raul Butragueno Fabregas in una faccenda del genere?
Santa ignoranza!
Se solo gli addetti stampa e i curatori leggessero anche le opere dei filosofi, forse a quest’ora quella sconosciuta crosta di Van Holsing sarebbe ancora fra di noi!
Doveva infatti destare quasi un senso di rabbia l’idea che qualcuno riuscisse a fare un colpo, così semplice e ingegnoso da sfiorare il ridicolo e poi si accontentasse di rubare un’opera sconosciuta ai più.
Sembrava quasi che il ladro l’avesse fatto apposta a portarsi via  una cosuccia come quella  per poi provocare una valanga di domande in un altro momento. Dal secondo giorno in poi, infatti, dopo essersi lambiccati il cervello sul come, iniziarono a parlare del perché e il primo ad essere bombardato di domande fu proprio il povero Gianparnassi, che nel frattempo aveva avuto la peggiore delle sorprese.
Subito dopo essere stato liberato, si attaccò al telefono e chiamò la figlia al cellulare, che, guarda strano, di quella storia non ne sapeva nulla, e anzi stava bene, e se ne andava in giro con le sue amiche a trasformare la carta di credito di papino in borsette e vestiti firmati. Soltanto dopo qualche minuto la ragazza si rese conto di aver pronunciato esattamente quella frase riguardo al fare tutto ciò che quella persona voleva. Le era venuto fuori in modo spontaneo, una sera che aveva conosciuto un tizio, di età indefinibile, con una faccia che non ricordava più, che, dopo averla rimorchiata, mezza ubriaca in una birreria, le aveva fatto la seguente proposta: Sono un artista, ho molto denaro, ma ho bisogno di un personaggio autorevole che sia disposto a parlare positivamente di me, a recensire in modo favorevole la mia opera. Ho parlato con tuo padre, ma lui non vuole saperne! Potresti dirgli di accettare la mia proposta? Lo ripeto: posso offrire fino a 10.000 euro!
La fanciulla, che fino al quel momento aveva prelevato dalla carta di credito del padre, senza farsi molte questioni morali, vedeva la possibilità di usufruire di quei soldi.  Quindi di fronte alla webcam del richiedente, dette il meglio di se stessa:
-     Ti prego babbo, fai quello che ti chiede questa persona! Accontentala!
In un secondo momento il ladro aveva ripulito il video: eliminato il rumore di sottofondo  della birreria, facendo risaltare soltanto il monologo della ragazza. Per il resto non aveva fatto altro che andare dal dottor Gianparnassi con quella registrazione. Non una pistola, non un coltello. Solo un po’ di spago e di scotch,  giusto per tenerlo buono. Si certo! Forse aveva anche una parrucca, dei baffi, degli occhiali e una finta cicatrice sul collo, alterato la voce e indossato dei tacchi per apparire più alto.
Chi mai penserebbe di poter fare un colpo come quello, se non qualcuno fortemente fiducioso nelle potenzialità dell’idiozia umana?
Un vecchio proverbio asseriva che per gli stupidi non esiste il paradiso. Probabilmente era vero, ma allo stesso tempo si doveva riconoscere come gli idioti possedessero una fortuna maggiore degli altri, soprattutto gli idioti che occupano settori importanti della vita pubblica. I provvedimenti contro il dottor Gianparnassi non tardarono ad arrivare, ma ben presto le sanzioni furono alleggerite e poi tolte. Una volta capito che quello non sarebbe stato un episodio isolato.

Dai propri padri si può ereditare di tutto: una fortuna come un mucchio di debiti. Thelonius Fante da suo padre aveva ereditato niente più del suo nome.
Thelonius era vittima del jazz e di un padre innamorato della musica di un pianista dal carattere bizzarro. In tutta la sua vita, il padre non si era preoccupato di lasciare averi al proprio figlio, convinto che con un nome del genere sarebbe potuto entrare nell’olimpo della musica e che, se avesse voluto intraprendere una carriera di pianista, chitarrista rock o cantante, con quel nome avrebbe avuto molta più fortuna che se si fosse chiamato Giovanni, Stefano o Goffredo.
A dire il vero, Thelonius ad amare il jazz ci aveva provato; ma di fronte al muro sonoro fatto di trombe, sassofoni e contrabbassi, aveva deciso di arrendersi, e di diventare un amante del rock.
La sua strada Thelonius l’aveva trovata in tutto un altro campo.
Quando uscì un suo saggio intitolato “Il paganesimo della famiglia Medici”, il mondo della storia dell’arte si divise in due diverse fazioni: quelli che lo consideravano un vero genio, percentuale che raggiungeva circa un terzo di tutti coloro che avevano letto il suo libro, e quelli che lo consideravano un autentico cialtrone, la cui percentuale raggiungeva il restante 66,6%.
Thelonius viveva grazie al 33,3% di lettori.
La sua attività principale consisteva nello scrivere tesi per conto terzi, lavori che erano commissionati da tutti coloro che ritenevano estremamente valide le sue idee, o che speravano fare scandalo nel mondo universitario.
Il tizio che aveva di fronte a sé, nella propria roulotte, apparteneva alla percentuale del 33 periodico e intendeva farsi scrivere una tesi dal titolo: “Il museo naturale contro il museo zoo”.
Per riassumerla, il tizio voleva che Thelonius si scagliasse contro la concezione moderna dei musei nazionali, che come disse una volta un noto ministro, “servivano per fare cassa”, ovvero per attrarre i turisti, vendere loro biglietti, cartoline, poster e quanti più oggetti possibili, per raddrizzare le finanze dello stato italiano. Contro tale idea di museo, il tipo di fronte a Thelonius, proponeva di riportare i capolavori nei loro luoghi originali, in modo da costringere i turisti a andarseli a vedere nelle vecchie chiese e palazzi patrizi e trasformare quella massa di vacanzieri in viaggiatori veri e propri. L’idea non era male e anzi Thelonius l’appoggiava, ma se proprio ci teneva così tanto, perché non se la scriveva da solo?
-     Ma come? – si stupì, quasi offeso il cliente – non siete voi che scrivete tesi per conto terzi? Non siete voi quello che ha dichiarato che “nei musei l’intelligenza sta appesa al muro, come un assassino alla forca”?
-     Sono io, ma una cosa è relazionare su un argomento, un libro, un’opera, un’altra sui convincimenti. Mi spiace tanto, ma non scriverò la sua tesi.
Il tizio non  aggiunse altro, ma lasciò che la sua faccia si storcesse in modo tale da non rendere necessario l’accompagnamento acustico. Si alzò, uscì dalla roulotte e si diresse verso l’autovettura.
Una bella macchina a dire il vero. Nuovo modello Mercedes, che per uno di soli venticinque anni, che in vita sua non doveva aver  mai lavorato un minuto, era un bel possedere. Thelonius capiva benissimo quali fossero le preoccupazioni di un tipo del genere. Uno con una carrozzeria come quella non poteva starsene tutto il giorno chiuso in una stanza a studiare; che figura ci avrebbe fatto col paparino che gli aveva comprato la macchina?
Lo vide andarsene via, rombando il più forte possibile, come se volesse sottolineare la differenza di ceto fra chi vive in una roulotte e chi un veicolo lo usa solo per muoversi.
Non sapeva quanto si sbagliasse. Thelonius certo non era ricco, ma neppure indigente. Le sue tesi gli avevano procurato un campo agricolo di almeno sei ettari, dentro al quale aveva piantato la sua roulotte. Aveva l’orgoglio di uno che aveva ottenuto tutto quello da solo, con la forza delle sue idee. Quanto a mostrare la propria ricchezza agli altri, era una cafonata che lasciava a quelli come il cliente, che aveva appena voltato il sedere tutto imbronciato all’idea di doversi scrivere una tesi da solo.
Thelonius stava per richiudere la porta, per dedicarsi al pranzo macrobiotico del suo gatto Schopenauer, quando vide notò la figura appoggiata alla moto. Se ne stava in disparte. Durante tutto il tempo che era rimasto a parlare con quel tipo, non ne aveva avvertito la presenza. Ora veniva verso di lui, indossando il casco integrale con la visiera abbassata.
-     Non le fa caldo lì dentro?
Alzò la visiera e si tolse il casco.
Non si aspettava che sotto vi potesse essere una donna e di quella bellezza, per di più!
-     Un cliente deluso, signor Fante?
-     No, è venuto a farmi vedere la sua macchina, ma gli ho detto che non intendo comprarla.
-     Posso entrare?
-     Perché? Si fida?
-     Non si preoccupi per me, signor Fante, se fosse necessario saprei difendermi anche da lei.
-     Buono a sapersi, ma intendevo dire che dentro non è propriamente pulito … Insomma voglio dire …
-     Non sono dell’ufficio d’igiene, signor Fante, sono qui per proporle un lavoro … E poi è bene che si senta un po’ in imbarazzo. Questo mi favorirà!

Fra le tante particolarità di quella donna, l’affascinava la sua totale indifferenza all’immane casino che regnava sovrano nella roulotte. Inoltre aveva ragione. Una volta tanto si sentiva in imbarazzo a presentarle una casa in quelle condizioni, proprio davanti a lei, con quegli occhi grandi e  i capelli neri e obbedienti. Più quella distraeva lo sguardo dal disordine, dalle lattine per terra, dai pantaloni gettati nelle scatole di cartone e più lui si sentiva un cialtrone.
Non c’era niente di meglio che chiederle di venire al sodo.
-     Ha mai scritto una biografia, signor Fante?
-     Ovviamente, signora … Come si chiama a proposito?
La donna tirò fuori un pacchetto di biglietti da visita. Ognuno con un nome e un cognome diverso: Elisa Ballerini, Olga Rantes, Stefania Coralli, Ilaria Montes, eccetera.
Thelonius guardò la donna con sguardo sospettoso.
-     E questo che mi rappresenta? Che vogliono dire questi biglietti da visita; lei è tutte queste persone?
-     Ovviamente no! Che differenza fa come mi chiamo? Amo cambiare identità quando posso. Scelga pure il nome che preferisce.
   Per uno che si chiamava come lui, la scelta era quasi obbligata.
-     Ilaria Montes?
-     Lo sapevo! Suona veramente falso, eh?
-     Quasi come il mio.
-     Appunto! Così avremo qualcosa in comune e non si sentirà così in imbarazzo solo perché vive in un porcile. Non si preoccupi, è la sua reputazione quella che mi interessa.
-     Non è proprio la cosa che mi invidiano di più al mondo!
-     Lo so! Il suo lavoro sulla famiglia Medici ha fatto furore. Le propongo un argomento che desterà ancor più scalpore del precedente.
-     Sono tutto orecchi!
-     Come le dicevo: vorrei che lei scrivesse una biografia. La storia umana e artistica di uno degli artisti più importanti del XVII secolo …
-     Ovvero?
-     Nero dei Lontanmorti.
Thelonius si pentì in quell’istante di averla fatta entrare nella sua roulotte e di essersi fatto prendere in giro. Chi diavolo era questo Nero dei Lontanmorti? Cosa mai voleva quella donna con un nome a scelta, da uno come lui? Pensò a tutto: che potesse essere una delle tasse, della finanze, della narcotici. Si alzò in piedi, facendo cenno alla donna di fare ugualmente e di procedere verso la porta.
La donna,  al contrario, rimase seduta, estrasse un blocco degli assegni e vi scrisse un numero sopra. Lo porse a Fante.
-     Le bastano?
-     Ma insomma – sbottò, esterrefatto – che vuole?
-     Diavolo! E’ più testone di quel che pensassi. Glie l’ho detto, no? Voglio che lei scriva la biografia dell’artista.
-     Ma di chi? Nero dei Morti?
-     De’ Lontanmorti!
-     Appunto! E chi sarebbe stato? Chi l’ha mai sentito nominare?
-     Proprio per questo voglio che lei tolga il velo di ignoranza riguardo a questo artista.
Thelonius si rimise seduto. Si grattò la testa. Guardò l’assegno, più perplesso di prima. Poi riguardò la donna, che lo fissava con sguardo ironico.
-     Come ha detto che si chiamava questo tizio?
-     Nero de’ Lontanmorti. Non mi sorprende che non conosca il soggetto, signor Fante. Trovo solo paradossale che un artista di questa città sia conosciuto negli Stati Uniti e non qui.
-     Ma lei ha detto che era vissuto nel XVII secolo? E allora che c’entrano gli Stati Uniti?
La donna aprì la borsa e gli mostrò una foto. Rappresentava un dipinto dal soggetto quanto meno inusuale: un cavaliere bardato di armatura e lancia, che, seduto con aria annoiata su una pietra di fronte a una cavità nella roccia.
-     Lo sa, com’è intitolato questo dipinto?
-     No.
-     San Giorgio senza il drago.
Fante scoppiò a ridere, credendo di trovarsi  di fronte a uno scherzo maldestro. Forse pensava che la burla qualcuno l’ avesse fatta alla donna di fronte a lui.
-     Mi faccia capire – riprese, Fante ridendo – in America, lei o qualcuno a lei vicino, ha comprato un dipinto di un certo Nero de’ Lontanmorti che rappresenterebbe un cavaliere senza un drago da cacciare. Sostiene addirittura che il dipinto abbia come titolo San Giorgio senza drago! Quanto lo avrebbe pagato questo quadro?
La donna non si mosse di un millimetro, non fece un gesto, non si innervosì.
-     E’ completamente fuori dal seminato, signor Fante. Non ho comprato nessun quadro, al contrario!
-     Va bene, l’ha venduto, spacciandolo per un artista che, a quanto pare, lei si è inventata tout court. Lo dica, signora Montes, o come diavolo si chiama, questo … Nero de’ Lontanmorti è una sua invenzione, ottima per il mercato americano e per qualche nababbo babbeo del Texas!
-     Si sbaglia! Nero de’ Lontanmorti è esistito davvero, come è vero che quel quadro  è stato venduto per una cifra che non le dirò perché non le deve interessare. Posso solo dirle che è stato venduto come Anonimo del 1600, ma è opera di Nero. Voglio solo che lei faccia quello per cui l’ho ingaggiata. Faccia buon lavoro, quando  l’avrà finito riceverà il doppio di dell’importo scritto su quell’assegno.
Quella donna era tremendamente seria. Lo mettevano a disagio le persone come lei, e ancor  di più quell’assegno, con quella cifra scritta sopra, che nessuno mai gli aveva dato. Si passava tra le dita quel pezzo di carta, mentre la donna riprendeva le sue cose, metteva il casco sotto il braccio e porgeva la mano a Fante, col piglio di una donna d’affari.
-     Mi aspetto grandi cose da lei, Fante! Non deve fare altro che spedirmi via e-mail il lavoro che di volta in volta svolgerà. L’indirizzo lo trova sul biglietto da visita. I suoi pagamenti avverranno per assegno o per contanti in una busta. Inizi a lavorare, Fante e vedrà che questo farà passare in secondo piano anche il suo lavoro sul paganesimo dei Medici.
      Uscì fuori e lui la guardò allontanarsi, indossare il casco e poi rombare via con la motocicletta di produzione americana, comprata forse nello stesso posto della compravendita del dipinto.
- Questa è tutta matta! - pensò fra sé Thelonius - fortuna che è piena di soldi!

domenica 17 aprile 2011

Gli intrusi

Da anni quel grande palazzo alla fine della strada era stato una provocazione per la nostra gente. Venti anni fa, almeno, era un palazzo come altri, abitato da famiglie, semplici affittuari. Ospitava un negozio di frutta e verdura al piano terreno. Quindici anni fa inizio a svuotarsi. Dissero che sarebbe stato demolito, che era infestato dagli scarafaggi e le fondamenta non erano più stabili. Tutte balle! Il palazzo è ancora lì, vuoto in apparenza, pieno invece di chissà quali misteri. La demolizione non c’è mai stata e non doveva esserci in effetti.
Il palazzo finì per essere uno come tanti proprio vent’anni fa. Ricordo che era di giugno.
In un giorno di giugno sei persone entrarono nel caveau della Gold Enterprise, una multinazionale che commerciava in gioielli, oro e preziosi, di sicuro la più grande azienda della nostra città. Tutte le volte che parlano della nostra città lo fanno solo per rammentare quel colosso dei metalli preziosi e della vanità.
Come dicevo, quelle sei persone se ne andarono dal caveau con una quantità enorme di roba luccicante, per un valore di miliardi. Per giorni la polizia cercò quelle persone e il loro bottino. Una settimana dopo sei persone furono trovate morte in uno degli appartamenti del palazzo in fondo alla strada. Si erano ammazzate fra loro. Fecero alla svelta a fare tornare i conti: sebbene la rapina fosse stata compiuta con i volti coperti, le telecamere del deposito fissarono le corporature dei ladri, perfino un giubbotto di una delle sei persone morte era lo stesso indossato da uno dei morti. Insomma erano loro. Trovati i ladri, ma non la refurtiva.
Iniziarono a girare voci insistenti che volevano i gioielli e l’oro nascosti da qualche parte nel palazzo. Ad avvalorare l’ipotesi la piantina del palazzo in questione ritrovata in una borsa vicina ad una delle vittime.
Per mesi venne cercata la refurtiva. Ogni giorno agenti di polizia entravano e uscivano dal palazzo con mandati di perquisizione. Furono giorni orrendi. Venivamo svegliati la notte da irruzioni improvvise, non potevamo uscire dal palazzo senza essere perquisiti.
Poi le cose parvero calmarsi. Fu un’illusione. Ad un tratto non si parlò più di tesori nascosti, ma di scarafaggi e muri cadenti. Ai poliziotti si sostituirono i geometri e i tecnici sanitari per fare rilevazioni. Vennero trovati muri fatiscenti e colonie di insetti. Vennero sollevati casi politici, caddero assessori alla casa, ma non cadde il palazzo. Di lì a poco il municipio ci fece sgombrare. Nessuno di noi poté ribellarsi, eravamo per la maggior parte affittuari, senza potere economico e contrattuale e poi ci venne offerta un’altra abitazione. Non rifiutammo. Nel giro di anno ci trasferimmo in un palazzo proprio di fronte a quello vecchio.
Accettammo e lì iniziò tutto.

Il nostro stupore aumentò con il passare dei mesi e poi degli anni. Il palazzo non veniva abbattuto, e due anni dopo la nostra dipartita, addirittura, vedemmo entrare un ometto con due valigie all’interno del palazzo. Non l’avevamo mai visto prima. Ci parve un uomo piccolo e buffo, ma la cosa più strana fu che non lo rivedemmo più. Cioè non lo vedemmo più uscire. Di tanto in tanto, con regolarità, però vedevamo entrare ed uscire operai e fattorini, segno di ripresa vitalità del palazzo. Quegli uomini portavano cibarie e attrezzi, eseguivano lavori all’interno e parevano avere una sorta di obbligo del silenzio. “Che andate a fare lì dentro? Per chi lavorate? Conoscete quell’ometto a cui portate questa roba?”. Nessuna risposta. Un sorriso o uno sguardo per far capire che non avrebbero mai parlato.

Allora ritornò fuori la storia del tesoro. Per molto tempo nessuno ne aveva fatto menzione. D’improvviso però scorgemmo strani cambiamenti nel palazzo. Affacciandosi dalle finestre del nostro palazzo dirimpetto, vedemmo che gli appartamenti del quinto piano  erano stati interamente occupati ed i muri abbattuti per far posto ad un unico grande salone.
Assistemmo in quei giorni ad un andirivieni di muratori, imbianchini e perfino pittori intenti ad affrescare il soffitto.
La curiosità ci prendeva. Riuscimmo a fare amicizia con uno degli operai che lavoravano all’interno, gli offrimmo una birra e riuscimmo a farci dire qualcosa.
1- Come mai stavano facendo dei lavori all’interno di un palazzo che doveva essere demolito?
L’ordinanza di abbattimento del palazzo era stata revocata. Non erano chiari i motivi.
2- Chi era  l’uomo dall’aspetto buffo?
Il nome non era conosciuto. Secondo alcuni si trattava di un eccentrico miliardario, forse straniero, che aveva comprato l’intero palazzo, riuscendo a far revocare l’ordinanza di abbattimento.
3- Che vuol farci con il palazzo?
Chiaro: cercare il tesoro nascosto.

I cambiamenti che intanto subiva il palazzo ci facevano sempre più sorgere il sospetto che le intenzioni dell’eccentrico e solitario ometto fossero serie. Le finestre del primo, secondo e terzo piano del palazzo vennero chiuse con potenti inferriate, mentre nel giardinetto antistante il portone presero fissa dimora sette dobermann neri, accuditi da personale esterno, che, a quanto ci parve di vedere, non aveva facoltà di entrare all’interno del palazzo.
Tempo dopo anche l’andirivieni di operai cessò. L’ometto buffo, evidentemente, si era creato l’ambiente giusto per poter vivere all’interno del palazzo e lì divertirsi a cercare il suo tesoro.

Non eravamo dello stesso avviso. Il palazzo apparteneva anche a noi. Noi ne avevamo fatto la storia, lì erano i nostri ricordi, non avevamo nessuna intenzione di lasciare a quel tizio annoiato e sicuramente già ricco di diventarlo ancora di più. Quel tesoro non avrebbe cambiato la sua vita, ma la nostra sicuramente.
Fu per questo che organizzammo la prima escursione.
I due ragazzi si chiamavano Ringo ed Chicco. In effetti erano stati un po’ stupidi o quantomeno ingenui. Tutto il palazzo e forse il quartiere intero era a conoscenza delle loro intenzioni. Si sentivano degli esploratori più che dei ladri.
“Troveremo il tesoro - dicevano - lo troveremo e lo divideremo con tutto il quartiere”
I due partirono in una notte fredda di febbraio. Li salutammo poco prima della “missione”, come la chiamavano loro, nel bar del quartiere. Non era certo la prima casa che svaligiavano. Erano conosciuti anche dalla polizia e potevamo tranquillamente dire che erano i più esperti del settore. Le ragazze del bar li riempirono di baci, lanciando la promessa di offrirsi al loro ritorno. Tutti noi provammo una certa invidia, mista sempre ad una sincera ammirazione per i due.
Salutarono con una pacca sulle spalle agli amici, una più in basso alle ragazze e s’avviarono verso il palazzo.
Fu l’ultima volta che li vedemmo.

Li conoscevo bene, così come le loro madri e i loro padri che piansero la loro scomparsa. Attendemmo più di due settimane. Nessuno denunciò la scomparsa. Si erano sempre intromessi in una proprietà altrui e tutti quanti ne eravamo a conoscenza. Tutti eravamo loro complici.
Non sapevamo cosa fosse successo. C’era un unico modo per saperlo.

Da quella sera di febbraio erano passati diversi mesi. Con oscena provocazione le stanze del palazzo, le nostre stanze, gli appartamenti della nostra vita, si illuminavano e riprendevano vita. Il grande salone del quinto piano si allargava, arricchendosi di dipinti e lampadari. Impunemente di fronte ai nostri occhi. Teneva le finestre di quel salone vigliaccamente aperte, per mostrare tutta la sua potenza e ricchezza, la sua impunibile arroganza e l’impotenza di noi povera gente.
Dovevamo entrare nel palazzo, recuperare il tesoro e possibilmente anche il buffo miliardario e farci dire che ne era stato dei due ragazzi che si erano avventurati nel palazzo.
L’idea di una seconda incursione all’interno, però non venne ad uno del quartiere.
Un tizio venuto da fuori città, capelli corti e grossi occhiali scuri, maglietta verde da calciatore americano entrò una sera al bar da cui era partita la spedizione di Ringo e Chicco. Stavamo giocando al biliardo, lui s’avvicinò e prese a parlare.
“Scommetto che ci avete provato ad andare in quel palazzo e vi hanno buttato fuori”.
Lo guardammo male e non lo riducemmo in poltiglia per una serie di motivi fra cui vanno annoverati la sua non indifferente stazza fisica, la sensazione di aver ascoltato le parole di un deficiente, categoria protetta anche nella nostra zona, nonché il presentimento che se qualcuno si presenta con una provocazione del genere deve avere qualcosa da suggerire.
Lo aveva.
“Non voglio sembrarvi maleducato, ma ho la sensazione che qualcuno abbia provato a entrare li dentro, senza il benché minimo piano”...
“Tu invece lo avresti?”.
Prima delle parole si fece precedere da un largo foglio. Sembrava una cartina, la planimetria di qualcosa, forse del palazzo del tesoro.
“Ci butterei le palle che avete provato ad entrarci cercando di ricordare com’era prima il palazzo. Beh, sappiate che ora è diverso! Le cose cambiano. Questo è il progetto di massima presentato al catasto per l’approvazione. Quello che troveremo all’interno sarà qualcosa a metà fra il palazzo del vostri ricordi e dei desideri del nostro miliardario mister Dorian”.
“Dorian? Sarebbe questo il nome di quell’ometto?”
“Esatto! Si chiama così, adesso che lo sapete suppongo che la visione della vostra vita cambi radicalmente! Non so neppure io chi sia questo signor Dorian, non frequento l’alta società, so solo che ha un sacco di soldi”.
“Faresti bene ad avere un altro tono. Credo che dovresti presentarti,  sai? - disse Il Biondo - Che ci fai qui, che vuoi da noi?”.
“Voglio trovare il tesoro”
“Capiti male, dolcezza!”
“Si direbbe che i malcapitati siete voi. Sbaglio o fra di voi c’è qualcuno degli sfrattati dal palazzo? Vi hanno buttato fuori proprio al momento giusto, eh? Che vi hanno inventato per farvi uscire? Scarafaggi? Ragni? Muri cadenti?”
Era veramente odioso, a tutti fremevano le mani per la voglia di schiaffargliele sul muso.
“Il tesoro non è tuo! - sentenziò Stecca - Quindi che vuoi?”.
“Il tesoro è più mio che vostro, se vogliamo essere precisi. Ve li ricordate quei sei della rapina alla Gold Enterprise? Bene, fra quelli c’era mio fratello! Io ero il settimo”.

Stecca e il Biondo capirono che avevamo a che fare con un professionista. Era venuto da noi per avvisarci delle sue intenzioni di andare a riprendersi il tesoro. Aveva bisogno di altre persone. Fidate, intelligenti e soprattutto con buona memoria. Qualcuno che ricordasse com’era sistemato l’interno del palazzo prima che quel tizio, Dorian, vi mettesse mano.
Non dovevamo parlarne con nessuno. Il bottino sarebbe stato spartito fra poche persone: il professionista venuto da fuori e quelli del biliardo: il sottoscritto, Stecca e il Biondo. Totale quattro persone. L’uomo venuto da fuori ci sapeva fare, era strano, ma sapeva come guadagnarsi la fiducia.
“Se non vi fidate di me, portatevi dietro delle armi. Anch’io avrò le mie difese, voi comunque sarete sempre in vantaggio”.

Partimmo in una sera di fine agosto. Non vi furono scene propiziatorie al bar, niente pacche sulle spalle. La regola del silenzio avrebbe propiziato meglio di qualsiasi altra cosa. Aprimmo un tombino in una strada laterale. Vi infilammo dentro. Il buio e il rimbombare dei nostri passi. Non riuscivamo a parlare, mentre l’uomo venuto da fuori, che scoprimmo si chiamava  Hernan, ci conduceva.
Avevo paura, mi chiedevo cosa ci facessi anch’io in quella spedizione. Certo se non mi fossi trovato quella sera al biliardo...In un certo senso mi ero quasi sentito in dovere di esserci. Realmente non mi interessava sapere cosa fosse successo a Ringo e Chicco, forse avevano trovato il tesoro e se ne erano fuggiti, forse erano morti li dentro, insomma non lo volevo sapere! Sapevo solo che ero condannato a vivere in quel quartiere e per tutta la vita avrei fatto quello, e anche il mio diploma di maturità duramente conquistato, nonché la fedina penale pulita, virtù alquanto rara dalle nostre parti, non mi sarebbe servita a molto. Non mi restava che quel tesoro, roba che un po’ mi ricordava un vecchio romanzo che mi fecero leggere a scuola, per quanto il mio quartiere non avesse niente di tropicale e romantico.
Ero lì, con Stecca, il Biondo e un tizio che mi stava alquanto sul culo. Sentivo anche una certa responsabilità nei riguardi degli altri due miei amici di biliardo. “Per fortuna che abbiamo un ragazzo intelligente come te - mi aveva detto Stecca - ci vuole qualcuno con un po’ di cervello per fare cose del genere per non farselo mettere in tasca da quel miliardario e da Hernan”. Ne ero lusingato, certo, ma le lusinghe non mi toglievano la strizza.
Dopo mezzo chilometro di buio e umido, Hernan si fermò, ricontrollò una mappa, deviò a destra e ci indicò una scala di ferro.
“Salita!”.
Salimmo le scale ed arrivammo ad una botola da aprire. Uscimmo in un cortiletto stretto e caldo. Il vecchio cortile del palazzo, quello di quand’ero bambino. Il cortile interno. Eravamo dentro il palazzo e avevamo fregato quei maledetti doberman all’entrata.
Sopra di noi brillavano un paio di stelle, confinate in un angolo del cortile interno. Parevano di buon auspicio.
La porta per l’ingresso nel palazzo era aperta. Entrammo, riuscendo per un attimo a commuoverci per essere giunti nel luogo della nostra gioventù.

Una rampa di scale, più squallida e cupa di come la ricordavo. Silenzio, i nostri passi più silenziosi si fermarono al quarto piano. Non ricordavo quei corridoi così sinistri e spenti, file di porte chiuse a chiave. Prendemmo un altro corridoio. L’uomo aveva fatto abbattere alcuni muri e prolungato a dismisura il corridoio. Lungo, molto più lungo di come lo rammentavo. Di come ognuno di noi lo ricordava. Procedeva fra meandri e angoli, in un giro tortuoso e inquietante. Colori bianchissimi alle pareti, si alternavano a porte colorate di nero. Quindi arrivammo a quell’osceno corridoio. Rimanemmo fermi di fronte a quell’improvvisa visione che si profilava dietro l’ennesimo angolo. I nostri occhi si rifiutavano di volere vedere quella scena orrenda: una lunga fila di teche di vetro verticali, con all’interno....le parole si gelano al solo pensiero di quelle figure messe dentro quelle orrende teche di vetro.
La poca luce e la scarsa voglia di verificare non ci permettevano di verificare se quelli, all’interno di quelle scatole trasparenti fossero corpi umani veri. Ero terrorizzato, come tutti gli altri non mi aspettavo niente di tutto questo. Passavamo al centro, cercando di puntare lo sguardo alla fine del corridoio. 
“E’ un segno positivo - diceva la nostra guida - ci vogliono spaventare, allora c’è dentro qualcosa di interessante”.
Cercavamo di rincuorarci a quelle parole, evidentemente giuste, aumentando il passo, quasi a correre.
“Non guardate, non guardate!”.
Era certo un ottimo consiglio, di certo la cosa più saggia da fare. Avevamo creato artificialmente un silenzio innaturale, come se fosse il rimedio migliore. Guardare avanti, camminare. Fu purtroppo proprio quel silenzio a consentirci di udire quell’orribile mormorio, che altrimenti non sarebbe stato possibile ascoltare.
“Guardami, guardami”. Nessuno di noi aveva parlato. Quella non era la voce di uno di noi.
“Guardami”.
Udimmo ancora l’invito, cercammo di non cadere in quella trappola, ma la cosa non riuscì al Biondo. Si voltò, guardò, e si mise a urlare e correre per l’intero corridoio.
Gli andammo dietro, sia per seguirlo, sia per non pensare a quello che evidentemente aveva visto il nostro compagno di avventura.
Si fermò ai bordi di una rampa di scale. Rannicchiato e piangente. Hernan lo prese per il colletto della maglia.
“Vuoi farci scoprire? Che ti metti ad urlare?!”
“L’ho visto, vi giuro che l’ho visto...Parlava, mi ha guardato negli occhi e parlava”.
“Qualunque cosa tu abbia visto o creduto di vedere te la devi scordare - lo riprese duramente Hernan - se qui dentro c’è il bottino della Gold Enterprise è chiaro che ci saranno anche dei congegni particolari per spaventare chiunque entri qui dentro. E’ evidente che il nostro Dorian non vuole essere disturbato nella sua ricerca del tesoro”.
“Ti giuro che quello era vero e ...”
“Non lo voglio sapere! - lo fermò Hernan - non lo dobbiamo sapere!”.

Salimmo la rampa di scale. Le urla del Biondo non avevano risvegliato l’attenzione di Dorian. Camminammo per un altro corridoio, con relativa calma. Non arrivava nessun rumore. Tutto in apparenza continuava ad essere morto e statico. Non trovammo niente il quel corridoio. Stanze chiuse a chiave, forse semplicemente perché non utilizzate. Il quinto doveva essere il piano dove Dorian aveva abbattuto dei muri per farci il suo salone da mostrare ai dirimpettai. Decidemmo di raggiungerlo. Forse non sarebbe stato male cercare Dorian prima ancora del tesoro. Ci sarebbe servito più di qualunque altra mappa.  Forse era nel grande salone.
Seguimmo una serie di porte. Soltanto le prime erano chiuse, quelle nel mezzo, invece, erano aperte. Entrammo nella prima. Erano camere comunicanti ed erano arredate come se fossero uffici di rappresentanza. Eleganti, con evidente stacco dallo squallore del corridoio.  Vi erano dei quadri alle pareti. Mi avvicinai per guardarli. Mi accorsi che tutti riproducevano il palazzo, visto generalmente dall’interno; quindi il corridoio, il cortile e perfino la stessa stanza dove ci trovavamo. L’uomo che li aveva fatti o fatti fare doveva nutrire una vera ossessione per quel luogo e doveva essere vero, se a quanto pare, Dorian, il ricco compratore del palazzo non si era mai visto uscire da lì. Stavo per distaccare l’occhio da quei quadri così ripetitivi, quando l’attenzione si soffermò su un particolare di uno di essi. Era uno che raffigurava una stanza del palazzo. In mezzo a questa, catturato dal pavimento “affogava” un uomo. Un’immagine strana e terrificante che niente aveva a che spartire con la razionalità. Com’era possibile annegare in un pavimento? Stavo per richiamare i miei compagni sul particolare del quadro, quando Stecca fece cenno di proseguire verso una stanza attigua da dove, secondo lui, proveniva un odore familiare. Entrammo nella stanza. In tutto e per tutto era uguale alla precedente, con gli stessi mobili, lo stesso colore di pavimento e i soliti quadri. Mi avvicinai per osservare il quadro con il particolare che avevo notato in precedenza. Una strana prudenza mi prese nel poggiare i piedi a terra. Sondavo il terreno con la punta delle scarpe, atteggiamento che fu notato da Stecca e Hernan. “Ma che fai?” mi chiesa la nostra guida. “Credo che dovremo stare attenti a dove mettiamo i piedi”.
Fecero un gesto della testa, sorridendo, per sottolineare la mia esagerazione. Arrivai di fronte al quadro del pavimento, ma notai che stavolta non era presente nessun annegato.
L’attenzione venne invece conquistata da un portacenere con tanto di sigaretta ancora fumante posta su un tavolino all’angolo.
“C’è stato qualcuno. C’è stato Dorian. Lui è qui vicino”.
Ci armammo. Se il riccone era nei paraggi meglio tenersi in guardia. Aprimmo quindi l’altra porta. Con terrore notai che eravamo entrati in quella stanza o corridoio riprodotto dal quadro.
“Stiamo tutti attenti a dove mettiamo i piedi”- dissi.
“Ancora con questa storia?” - ironizzò Stecca.
“Vi dico di stare attenti”.
Vedevo invece con profondo dispiacere che se ne fregavano del tutto dei miei consigli. Procedevano tranquilli in mezzo alla stanza - corridoio, senza badare o dove mettevano i piedi.
“Il terreno potrebbe franare” - aggiunsi.
“La vuoi smettere?”- disse stavolta il Biondo. Lo vidi avanzare con fare deciso, senza esitare nel mezzo della stanza, mentre rispetto agli altri me ne stavo indietro. Fissavo con terrore il cammino del Biondo, quando uno squarcio come di ghiaccio rotto udii sotto i piedi di Stecca. I nostri occhi non credevano all’immagine del nostro amico risucchiato dal pavimento. Lo sentimmo urlare mentre affondava. Era caduto in un trabocchetto. Una sottile lastra di vetro, colorata come il resto del pavimento, tale da sembrare marmo, si era rotta sopra una vasca d’acqua scura.
“Aiuto, c’è qualcosa qui dentro”.
Ci precipitammo ai bordi di quella vasca nascosta, facendo attenzione a camminare realmente sul marmo. Lo vedemmo precipitare dentro l’acqua scura, quasi risucchiato.
“La torcia. Illumina!”
Come il Biondo puntò la torcia verso l’acqua di colpo vedemmo strani pesci radunarsi attorno al corpo dell’annegato.
Hernan si tolse il giubbotto e se lo avvolse tutto intono ad un braccio, coprendo anche una parte della mano.
“Tenetemi forte i piedi” – ordinò.
Facemmo quel che disse, senza chiederci perché.
Immerse il braccio nella vasca. Lo vidi stringere i denti.
“Tirate su adesso”.
Radunammo tutte le forze: portammo fuori il braccio di Hernan e quello di Stecca. Afferrammo il braccio sinistro, poi quello destro e lo tirammo fuori, mentre una serie di orrendi pesci pieni di denti continuavano ad aggrapparsi ai brandelli dei suoi pantaloni. Era pieno di morsi, ma era ancora intero. Se quei pesci non lo avevano divorato era solo merito della prontezza di riflessi di Hernan.
Mi chiedevo che senso avesse tutto ciò. La vasca con i pesci, nascosta sotto il pavimento, il quadro che in un certo senso avvertiva del pericolo per poi smentirlo in un’immagine seguente, la visione dei corpi nelle teche di vetro, così orrende che non riuscimmo neppure a verificare se erano autentiche. Tutto sembrava fatto di proposito per spaventare chi si fosse avventurato all’interno. Mi chiedevo perché Dorian avesse sprecato tutto quel tempo per costruire questi trabocchetti, quando poteva utilizzarlo per cercare il tesoro.
 “Se ci sono tutte queste trappole è solo perché c’è qualcosa da difendere”- era l’opinione di tutti gli altri.
Era l’unica cosa che ci spingeva avanti a tentare il tutto per tutto.
Da lì partì l’idea che se quella vasca doveva stare a proteggere qualcosa d’importante, forse era un passaggio.
“Quanto è profonda quella vasca Stecca?”- chiese Hernan qualche minuto dopo aver tirato fuori il nostro amico.
“Non ho proprio avuto l’occasione di verificare”
“Non sei andato giù del tutto, però”.
“Mi era parso di toccare qualcosa con i piedi”.
Hernan chiese la torcia al Biondo. Illuminò la vasca, vedevamo quegli orrendi pesci sguazzare frenetici avanti e indietro”
“Ci vorrebbe un bastone, un’asta per tastare il fondo”.
Ritornammo nella stanza precedente. Nel centro stava un tavolino basso e lungo poco più di un metro. Non bastava. L’asta delle tende. Portammo un tavolo più alto vicino alla finestra, ci montammo sopra e sradicammo l’asta. Ritornati nella stanza seguente l’immergemmo nella vasca. Arrivammo a toccarne il fondo. Non più di un paio di metri. Il fondo brillava, forse era fatto di vetro. Continuammo a colpire con l’asta, con tutta la forza che avevamo. Doveva essere vetro, quasi certamente. Insistemmo ancora, sentivamo incrinarsi il pavimento. Ancora qualche altro colpo. La crepa si spaccò. Insistemmo ancora, fino a quando il fondo si schiantò del tutto, l’acqua fuoriuscì, portandosi dietro quei pesci. Facemmo luce all’interno del buco.
Al di sotto di quello che una volta era un fondo di vetro pareva aprirsi una larga stanza, probabilmente uno degli appartamenti del quarto piano.
Vi lanciammo il tavolino basso, per verificare l’altezza e terminare di rompere il vetro.
Appoggiammo l’asta al bordo del pavimento rotto e l’utilizzammo per scendere al piano inferiore.

A differenza di quella con il buco nel pavimento, questa stanza era completamente buia e priva di qualunque arredamento. La prima sensazione era che avevamo fatto una cazzata, abbandonando il piano di sopra. Hernan ci ricordò però che proprio al quarto piano del palazzo era avvenuta l’ultima riunione dei rapinatori e che doveva esserci un motivo perché quelle stanze avevano tutte la porta sul corridoio chiusa.
Forse eravamo sulla strada giusta.
Poi un dubbio. “Come facciamo se il tesoro fosse nascosto dentro il muri? Non abbiamo niente per abbatterli”.
“I muri non c’entrano niente - ribatté Hernan - credi che uno come Dorian, con tutti i miliardi che ha, non li avrà già passati ai raggi x?”
“Allora che facciamo? Dove li dovremmo cercare quei diamanti?”.
“Dove li nasconderesti tu più di trecento  sacchi di roba luccicante?”.
Non rispondemmo. Fummo subito colpiti da quella cifra incredibile: trecento sacchi fra diamanti, pietre preziose e roba simile. Non avevamo mai saputo la consistenza del bottino della più clamorosa rapina di tutti i tempi della nostra città.
La somma ci distrasse, così che Hernan continuò: “Dove nascondereste tutta quella roba che luccica?”
“In mezzo ad altra roba che luccica” - risposi.
“Bravo ragazzo! Adesso sai cosa dobbiamo cercare”.

Girammo per tutti i bui appartamenti del quarto piano, puntando le torce ovunque per vedere se riflettessero su qualcosa. Sentimmo di aver sbagliato e che avremmo dovuto innanzitutto cercare nel grande salone del quinto piano. Se Dorian aveva trovato il tesoro probabilmente lo aveva nascosto lì; per poterselo godere quando voleva, tenerlo costantemente sotto controllo e sbatterlo in faccia ai suoi dirimpettai.
“Non l’avete ancora capito a cosa serve quel salone, vero? - ci riprese Hernan - quello è uno specchio per le allodole. Pensate che Dorian possa aver costruito un salone come quello e poi chiamato qualcuno a nascondergli i diamanti? C’erano spesso operai in quel salone, era l’unica sala del palazzo dove c’era qualcuno oltre lui. Lo fa per farci andare i coglioni come noi. Tutto è fatto apposta per crederlo: la lucentezza della grande sala, i trabocchetti prima di arrivarci, le stanze che sembrano abitate”.
“Allora dove sarebbe nascosto secondo te? Non avevi detto che tuo fratello era uno dei rapinatori? Non ti ha detto niente, mi sembra molto strano, caro mio...”
Il tono di Stecca era quanto meno amichevole nei confronti della nostra guida. Hernan però non ebbe il tempo di rispondere. Qualcosa di più strano ci apparve alla vista. Alla fine di un corridoio, nel mezzo di una luce bianca e artificiale si stagliava una figura. Pareva muoversi e non doveva essere a più di venti metri da noi. Fatta soltanto d’ombra, era come seduta su qualcosa che si muoveva, forse una sedia a rotelle. Non la vedevamo in volto.
Non doveva esserci apparsa all’improvviso, forse ci fissava già da qualche istante, forse aveva seguito tutta la nostra conversazione.
“Chi sei?”
La figura non rispose se non con una risata secca e vecchia. Mosse le mani sulle ruote e arretrò uscendo dalla nostra vista.
Gli corremmo dietro, per quanto potesse sembrare strano riuscimmo solo a vederlo scappare sul suo trabiccolo. Si voltò verso di noi, prima di entrare in un ascensore e andarsene. Vidi il suo volto liberato dall’ombra ridere verso di noi e forse ridere di noi.
Prima che raggiungessimo la porta dell’ascensore se ne era partito, lasciandoci il suo atroce sorriso in ricordo e una nuova paura: quella di sapere che ci aspettava. 
........(continua)..........

Forse vendicammo Hammer

FORSE VENDICAMMO HAMMER

Alzata la testa dopo essersi provata le scarpe la vide, ma certo non poteva dirsi convinta e certa di averla vista. Lo specchio era vicino a lei e quella che aveva vista riflessa era la sua faccia. Come faceva però la sua faccia a trovarsi in quella posizione. Se era la sua doveva starsene vicino al pavimento,  con un paio di scarpe nuove da provare.
Invece quella appena passata era in piedi e indossava un vestito che lei non avrebbe mai messo su.
Lasciò da parte le scarpe.
- Non ha intenzione di comprarle? - le chiese la commessa, dall’aria infastidita.
- No, non adesso, mi dispiace. Ho visto una persona che indossava delle scarpe differenti.
Le corse dietro. La vedeva solo di spalle, doveva fare presto a raggiungerla o l’avrebbe persa fra la folla del centro commerciale. Vide i suoi capelli. Erano come i suoi in tutti i particolari, stesso colore scuro, stessa lunghezza, lisci come i suoi, ma di sicuro tenuti meglio, con più cura.  I vestiti poi! I vestiti erano così diversi dai suoi.
- Permesso, permesso! Iniziò a sgomitare fra la folla.
Vide la donna prendere la scala mobile  La vide di profilo, quel profilo che conosceva così bene che mai avrebbe pensato di vederlo su altri.
- Dove vai con la mia faccia!
La scala mobile saliva sempre più in alto, portando la donna al terzo piano. Poté vederla con indosso una microgonna di colore arancio, ovviamente vistosa e che le lasciava perfettamente scoperte le gambe.
Ebbe un terribile momento di imbarazzo, aumentato nel vedere due ragazzotti indicare la ragazza sulle scale con il dito indice, e fare apprezzamenti sulle sue gambe, così generosamente mostrate.
Era imbarazzata. Aveva paura che la gente la vedesse, notasse quanto il suo volto fosse simile a quello di quella donna che saliva le scale. Dalla somiglianza col volto alla piena uguaglianza del resto del corpo il passo era breve. Com’era quella donna sulle scale e com’era lei. Vedere le gambe di quella donna era come vedere le sue.
I ragazzi continuavano i loro commenti. La donna sulle scale li notò, ripagando i due con un sorriso di autocompiacimento, che deliziò ulteriormente quei due mascalzoni. I loro commenti si fecero ulteriormente entusiasti. Altri occhi adesso puntavano le gambe della donna.
- Puttana! - pensò fra sé Tiziana - sperando che nessuno la guardasse.
Arrivata anche lei al terzo piano, continuò il pedinamento, mentre intanto un uomo, si avvicinava all’inseguita. Non provava neppure a fare resistenza. La donna pareva accogliere anche le attenzioni di questo con il massimo dell’arrendevolezza. L’uomo le aveva ormai cinto con un braccio la vita, facendole capire la sua intenzione di portarla in un altro luogo. La donna accettò e con il braccio destro ad abbracciare il nuovo venuto si perse tra la gente.

2
- No, non conosco nessuno dei nostri amici che abbia fatto una cosa simile!
- Massimo, io pensavo a Massimo. Gli avevo detto di no in maniera definitiva e non mi parve che l’avesse presa bene!
- Ascoltami Tiziana, non puoi accusare Massimo di aver fatto una cosa simile e poi anche se l’avesse fatto non dovresti condannarlo. In fondo sarebbe un gesto d’amore!
- Gesto d’amore un accidente! - urlò Tiziana - Capisco che per te la duplicazione non è un reato, ma per me e per la legge lo é.
- Non lo è - rispose calma e consapevole dei propri diritti la sua amica Irene. Senti Tiziana, non tutti nascono con la fortuna di essere belli come te o come Terence! La gente normale, come me ad esempio, o un po’ bruttina come Massimo, non può neppure sognare di stare con una persona bella. Ma la bellezza è un diritto, che diamine! Anche noi ne abbiamo bisogno!
- Ti sento urlare come un ossesso! Ti verrà la gola secca, vuoi che ti porti da bere, amore?
Terence entrò nella stanza, bellissimo. Alto più di un metro e novanta, la pelle perfettamente abbronzata a risaltare gli occhi verde chiaro e i capelli biondi e lunghi. Indossava una maglietta color avana, aderente al corpo, tutta traforata, su un paio di pantaloni di pelle nera. Si avvicinò a Irene, quasi inginocchiandosi per parlarle mentre lei era seduta.
- Se ti arrabbi così il tuo bel volto si sciupa.
- Mi arrabbiavo con Tiziana. La storia dei duplicati. Lo sai come la pensa.
Terence si voltò verso l’ospite, conservando una gentile espressione di rimprovero.
- Ah, ah Tiziana! Così farai arrabbiare la mia padroncina!
Tiziana non ribatté, girò la faccia altrove per non dover parlare con Terence, che comunque non si offese.
- Cosa gradisci amore?
- Una vodka alla prugna!
- E tu Tiziana?
- Un bicchiere d’acqua!
- Solo un bicchiere d’acqua? - chiese con il solito sorriso Terence.
- Si, solo un bicchiere d’acqua, Terence! Grazie!
Terence si alzò, diretto verso la cucina. Irene lo fermò.
- Terence!
- Si, padroncina?
- Ti spiacerebbe tornare in sala senza la maglietta?
- No, padroncina! Farò come tu mi dici! Vuoi che mi tolga solo la maglietta?
Irene ci pensò su un attimo.
- Si, solo la maglietta!
- Ai tuoi ordini padroncina.
Irene guardò Tiziana con aria di rimprovero.
- Ti riesce così difficile essere gentile con Terence?
- Fa qualche differenza essere gentile o meno con un duplicato.
- Lo vedi cosa sei? Sei razzista! Non accetti una persona diversa da te!
- Una persona! Ma come puoi definire persona un duplicato? Mi chiedo come tu faccia a provare sentimenti verso quell’ammasso di circuiti e bioestere.
- Non è un ammasso di circuiti e non parlare di Terence in quel modo! E’ l’uomo migliore del mondo.
- Perché è finto! Gli uomini veri non sono così!
- Certo!  Gli uomini veri ti lasciano, ti fanno soffrire, ti tradiscono!
- Ma mandavano avanti la nostra razza, Irene! I duplicati stanno affondando la razza umana!
Terence intanto era tornato. Non aveva più la maglietta. Procedeva a torso nudo, con un piccolo vassoietto.
- Ecco il bicchiere d’acqua per te, Tiziana, e la vodka alla prugna per il mio amore.
Le ragazze presero i bicchieri. Irene iniziò a sorseggiare ammirata del petto liscio e muscoloso di Terence.
- Sei sicura di non volermi vedere con qualcosa di meno addosso? Domandò il duplicato.
- Non tentarmi mio bel cameriere, non tentarmi!
Irene rideva, mentre Terence rimaneva immobile al suo fianco, con il vassoietto in mano, in attesa che Irene avesse finito. La ragazza ostentava sicurezza. Accavallò le gambe paffute, facendo ruvidamente strusciare le calze, in un suono che urtò i nervi di Tiziana.
- Lo sai Tiziana quante cure ho fatto per dimagrire? Quante rinunce ho dovuto fare per trovarmi un ragazzo? E alla fine, quando ci riuscivo che ottenevo? Un uomo che preferiva trascorrere le serate a vedere la partita in tv, che non gli andava di uscire. Con Terence non ho bisogno di questo. Sono me stessa. Lo sai che prima le ragazze morivano di anoressia e lo sai perché? Perché dovevano essere belle per piacere. Ora non muore più nessuno e tutti sono più contenti.
- Non sono venuta qui per parlare di filosofia, voglio solo sapere se hai sentito qualcosa da qualcuno dei nostri amici.
- Sarebbe bellissimo se Massimo si fosse fatto fare un tuo duplicato! Pensa un po’: una Tiziana come aveva sempre sognato.
- Quella che ho visto in giro era la mia copia, ma in versione zoccola. Aveva una minigonna che pareva una sciarpa.
- Tu non hai mai indossato una gonna in tutta la tua vita. Quella donna ti ha fatto vedere che non avresti nessun problema a vestirti in un modo più femminile.
- Come mi vesto sono fatti miei! Rispondimi soltanto a questa domanda: sai se Massimo mi ha fatta duplicare?
- Massimo ha un duplicato, ma mi spiace deluderti, non sei tu.


3
Tiziana suonò il campanello. Le aprì la porta una donna dall’aria corrucciata. Ma non era certo l’espressione la prima cosa che si notava di una come quella. Vestita con indosso una corta tunica da schiava antico-romana e sandali allacciati alle caviglie la donna chiese il nome dell’ospite.
- Tiziana. Dica al suo padrone che sono Tiziana e che vorrei parlargli.
La donna fece entrare Tiziana nel salotto.
- E’ la signora Tiziana, dice che vuole parlargli, signore.
Massimo era sorpreso della visita, da tempo non rivedeva Tiziana. La fece accomodare, batté forte le mani e chiamò a sé la donna.
- Porta il carrello delle vivande per gli ospiti, sbrigati!
La donna obbedì, uscendo dalla sala.
- E’ il duplicato della tua Capoufficio?
Stavolta Massimo parve colpito dalla domanda, ma volle rispondere sicuro, orgoglioso, quasi esagerato.
- Si, è la mia schiava.
- Una sorta di vendetta sociale a quanto vedo. La lotta di classe arrivata all’ultimo stadio.
Massimo non volle controbattere, disse solo che ognuno era libero di scegliere il prodotto che più desiderava. Il duplicato della Capoufficio tornò col carrello delle vivande, chiese a Tiziana cosa preferisse.
- Il solito bicchiere d’acqua.
Poi si rivolse a Massimo. Fece una piccola reverenza, piegando le ginocchia di fronte a lui.
- Un rum con fragola e ghiaccio!
La donna obbedì, preparò il bicchiere a cui aggiunse delle fette di fragola. Un altro inchino prima di porgere da bere.
- Come fai a sapere che è la mia Capoufficio?
- Non è la tua Capoufficio, Massimo, credo che se lo sapesse avresti dei bei guai sul lavoro. In ogni caso è stata Irene a dirmelo.
Massimo strinse forte il bicchiere in un gesto falso di teatrale rabbia.
- Non si può neppure avere un po’ di riservatezza! Irene!
- Cos’hai contro Irene?
- Irene dovrebbe starsene zitta, con il suo pupazzone!
- E tu invece?
- Il mio caso è diverso dal suo. Quel Terence non è altro che un bambolotto venduto da una multinazionale, lo sai quanti Terence ci sono al mondo?
- Tutti quelli che sono stati comprati dalle fans di Terence Brand.
- Lo capisci? Se giri per la città ne trovi a centinaia di duplicati di Terence Brand. Tutte innamorate del bel Terence, tutte a vedere i suoi film e un duplicato come quello è ammesso, perché lui è un personaggio pubblico e prende un sacco di soldi dal suo duplicato, ma pensa i rischi che corro io, che corrono quelli come me che hanno duplicato un privato cittadino.
- Massimo voglio parlarti proprio di questo.
- Di cosa?
- Da chi te lo sei fatto fare il tuo pupazzo?
Un ghigno comparve sul volto di Massimo. Un’espressione che Tiziana provvide immediatamente a distruggere.
- Non ci siamo capiti. Non voglio duplicare nessuno.
- Allora qual è il motivo di questa domanda?
- In città gira un mio duplicato, è ovvio che qualcuno deve avere fornito i miei dati al duplicatore.
- E tu hai pensato che fossi stato io? Ti ringrazio!
Le scuse di Tiziana furono interrotte dalla distrazione di Massimo. L’amico si rivolse al duplicato della Capoufficio.
- Porta via il carrello. E cambiati il vestito. E’ da ieri sera che sei vestita così.
- E’ il vestito da schiava, a lei piace che mi vesta da schiava - rispose con dolcezza il duplicato.
- Che vestiti hai da proporre?
- Ho quello da scolaretta, poi quello da segretaria che a lei piace tanto, quello da cameriera, ma il grembiulino è sporco del vino che mi hanno versato i suoi amici, padrone, poi ho quello da majorette, da ragazza pon pon...
- Vada per la majorette!
- Come comanda, signore.
Il duplicato uscì di nuovo. Tiziana cercava di capire il comportamento di Massimo. Quella storia del vestito pareva un diversivo per evitare la faccenda.
- Non sei curioso di sapere chi mi ha duplicata?
- Tu credi che sia stato io non è vero?
- Come hai fatto ad ottenere un duplicato di quella donna?
- Ho semplicemente detto ad un duplicatore chi fosse il soggetto che desideravo. Il resto è stato fatto interamente da lui.
- Ma il duplicatore avrà avuto bisogno di qualche riferimento, una foto, un filmato.
- Vedo che non sei così digiuna di questo argomento come vorresti mostrare.
- Ho avuto a che fare con la faccenda ed è una cosa che non mi è andata giù.
- Ricordo benissimo e mi scuso.
Il duplicato era tornato. Il gonnellino da majorette iniziò a roteare di fronte agli occhi dell’uomo, a tempo con il bastone dorato.
La gambe danzanti della Capoufficio ipnotizzarono gli occhi di Massimo. Assorto nello sguardo, Massimo riuscì a parlare solo molto tempo dopo.
- Io ti ho dimenticata Tiziana. E tu sai come si fa.



4
- Adesso dovrò farle alcune domande, so che saranno dei ricordi terribili per lei, ma devo farlo, se ne rende conto, vero signora?
- Si, ero già stata informata della procedura.
- E’ fondamentale per il test a posteriori. Si metta pure il casco.
La donna infilò il grosso casco sulla testa. Tiziana si alzò dalla sedia per aggiustarne la posizione e accese la macchina.
- Un breve attimo d’attesa per far scaldare la macchina.
- Me ne ricorderò in sogno, dottoressa?
- No, non dovrebbe accadere. Se l’operazione riesce perfettamente non dovrebbe succedere.
- Lo spero davvero, dottoressa. Non sa quanta voglia ho di dimenticare tutto.
- Me ne rendo conto. Possiamo iniziare?
- Va bene.
Lo scanner cerebrale mostrava zone chiare. Il ricordo non era stato ancora attivato. Tiziana partì quindi con la prima domanda:
- Si ricorda il giorno in cui avvenne?
- Era una notte di maggio. Non mi ricordo il giorno di preciso, ma era di maggio, ne sono sicura, maggio di quattro anni fa.
- Quanti eravate in casa?
- Io, mio marito e il mio nipotino.
- Eravate già a dormire.
- Si, avevo già messo a letto Giovanni. Io e mio marito dormivano da qualche ora...Le tre e ventiquattro, mi ricordo l’ora...che strano, l’ora e non il giorno.
Lo scanner mostrava zone azzurrognole nella parte sinistra del cervello. Tiziana fece un rapido zoom sull’area. La donna continuava a parlare. Il colore azzurro si intensificava.
- Sentii un rumore, mio marito accese la luce, scese le scale...non sentii più niente per un bel po’, poi....
Gli occhi dell’anziana donna iniziarono a lacrimare. Lo scanner indicava una zona piuttosto larga nel lobo occipitale sinistro. Tiziana dette un ulteriore ordine di zoom allo scanner.
- Che successe poi signora...si faccia forza, ci siamo quasi. Tiziana incoraggiò la donna a proseguire in quel ricordo, malgrado il dolore.
- Chiamai mio marito, perché non udivo niente...Carlo, Carlo che succede! Ma non mi rispondeva. Poi sentii delle voci, e poi dei rumori. Oggetti che cadevano. Sentii Carlo urlare. Andai a vedere, la luce era accesa, tre uomini stavano prendendo a calci e pugni il mio Carlo!
La donna scoppiò a piangere. Freddezza. Tiziana doveva mantenersi fredda, non consolare la donna, malgrado il dolore terribile di quel ricordo. Lasciarla piangere in pace. Non era crudeltà, era la sua professione. Doveva concentrarsi sulla schermata dello scanner. La zona era ormai identificata. L’epicentro del dolore doveva essere da quelle parti.
- Occipitale  sinistro, 85° sud, 35° nord, 33° interni...Zoom!
Insistette ancora con una la domanda. Il tono della voce di Tiziana si fece più coinvolto. Stava per arrivare all’epicentro.
- Mi racconti del bambino. Che successe a suo nipote?
Non riuscì a parlare per molto tempo, i singhiozzi soffocarono le parole della povera donna, ma rivelarono alla perfezione il punto preciso in cui era nascosto quel ricordo, l’epicentro della storia e del dolore della paziente di Tiziana.
- Stesse coordinate, 33 interni e 810 millineuroni. Ci siamo! Stampa la schermata.
Poi, rivolta all’interfono dell’ambulatorio:
- Giulia,  prepara la sala per l’intervento!

La signora si svegliò poche ore dopo. Sull’inizio non ricordava bene dove fosse, cosa normale, dopo un’operazione come quella.
La paziente non doveva incontrare chi l’avesse operata, Tiziana osservò la conversazione da dietro un pannello del reparto ortopedico, la donna non doveva ricordare di essere stata operata alla memoria.
- Tutto bene signora? - le chiese un’infermiera.
- Bene, si cammino perfettamente. Che brutta caduta! Credevo di dover continuare la mia vita sulle stampelle…
Al di la dello schermo Tiziana osservava il risultato del suo lavoro.
- Un lavoro perfetto dottoressa! - la elogiò il primario.
- La memochirurgia ha fatto passi da gigante, non c’è che dire, commentò Tiziana - Un piccolo intervento e nessuno è mai entrato in casa della signora, suo marito non è stato mai stato picchiato, nessuno le ha mai puntato una pistola alla tempia, suo nipote non è mai esistito.
- Preferiresti vivere con un ricordo come quello? - le chiese il primario.
- Una volta dicevano che il dolore aiuta a crescere. La nostra è una società che ha rifiutato il dolore. Ha rifiutato di crescere.
- Noi siamo medici Tiziana, non filosofi. A proposito, Tiziana...mentre facevi l’intervento ha chiamato tua madre.
Tiziana guardò il primario, quasi con un’aria di sottile rimprovero, atteggiamento che si permetteva di avere, grazie alla sua bravura e alla predilezione che l’uomo aveva per lei.
- Mia madre? Ha detto mia madre, vero dottore?

5
Aperta la porta di casa suo padre l’abbracciò forte.
- Che bello! La famiglia di nuovo riunita.
Tiziana si sforzò di offrire il migliore sorriso a suo padre. Lo strinse forte fra le braccia, avrebbe voluto piangere, ma si trattenne dal farlo.
- Sei arrivata Tiziana!
La voce di una donna arrivava dalla cucina. Tiziana udì un rumore di posate, e poi di passi. Doveva prepararsi all’incontro con la donna. Cosa che non le riusciva naturale.
- Ciao Tiziana! Piccola mia!
- Ciao mamma!
Sentì un brivido nel chiamarla in quel modo, un senso di colpa profondo, ma doveva sopportare. La famiglia entrò in sala, la tavola era apparecchiata a dovere. Gli antipasti come piacevano a Tiziana, specialità per cui sua madre era stata famosa fra tutti i suoi amici e conoscenti.
La ragazza si accomodò. Era pronta a subire le solite domande.
- Come va al lavoro Tiziana?
- Piuttosto bene, lavoriamo molto.
- Ci credo, con tutta la gente che cade ne avrete di gambe e braccia da rimettere a posto.
Le domande passavano nella sua testa. Quasi rispondeva in automatico, mentre il sorriso di suo padre le penetrava nel cuore, fino a ferirla. Guardava la donna seduta a fianco dell’uomo, la guardava fissa negli occhi, cercando di capire che sentimenti avesse per lei e se di sentimenti potevano trattarsi quelle sensazioni, più fisiche che emotive che sentiva ogni volta che la vedeva.
Guardava quella donna, ed andava col pensiero al giorno in vide il volto di sua madre per l’ultimo istante. Il momento in cui avevano chiuso la bara. La disperazione di suo padre, quel gettarsi addosso a quel pezzo di legno ed urlare il nome della donna con cui aveva vissuto la vita intera. Chi aveva detto che il dolore si divide? Povero illuso chiunque lo avesse detto. Quello che ricordava era solo il moltiplicarsi per due la sua angoscia, il suo mal di stomaco, incapace di sopportare la sua pena e quella di suo padre.
Non poteva vedere così suo padre. Sapeva che avrebbe perso anche lui se fosse continuata quella storia. C’era chi poteva evitarlo. Non ricordò neppure come venne fuori la proposta, forse l’idea era stata addirittura sua, chissà se suo padre avrebbe fatto da solo un passo come quello. Degli amici  e colleghi dottori fecero i nomi di alcune persone, gente che poteva aiutarli. Bastavano foto, filmati, carte di identità, registrazioni di voci, conservare i vestiti, ricostruire le corporature. Non passò più di un mese e sua madre ritornò in vita in un perfetto duplicato. Stessa voce, stessa altezza, stesso carattere, stessi difetti, stessa capacità di preparare quei deliziosi antipasti, di essere così dolce e gentile, di sorridere e telefonare per chiedere come stai.
Suo padre non riusciva a credere a quello che vedevano i suoi occhi. E per farlo non poteva fare altro che rivolgersi a lei, sua figlia. Dicevano che era la migliore, che venivano anche da altre città per farsi operare da lei e rimuovere i centri di memoria del dolore.
- Non chiedermi niente di questo, babbo!
- Vuoi rifiutare questo a tuo padre? Sto rinascendo, ma mi manca la convinzione di farlo, ti prego Tiziana, io ti ho dato la vita, ti chiedo solo di darla anche a me.
Ragionamento spiazzante, anche per una donna razionale come lei.
Portò suo padre in ospedale, lo operò e quando si svegliò si ritrovò di nuovo a fianco di sua moglie, una donna vitale e allegra e soprattutto mai morta.
Per essere ancora più sicura del risultato gli cancellò dalla memoria che lavoro facesse sua figlia, in modo che neppure gli potesse venire il sospetto di avere avuto un’operazione del genere. Suo padre era tornato a vivere, sua madre era invece stata  sepolta per la seconda volta.

La cena era finita, Tiziana passò un’altra ora a parlare con suo padre e il duplicato di sua madre.
Alla fine di quell’ora si complimentò con se stessa per essere riuscita a parlare di tutto con quei due tranne di qualcosa di vero. Raccontare di un lavoro falso, di colleghi falsi, di un passato falso. Quando si congedò e fu l’ora di tornare a casa, trovò qualche difficoltà a chiamare come padre quell’uomo che la salutava sulla porta.


6
La cameriera ritornò al tavolo con il vassoio delle ordinazioni. Era l’esatto duplicato di una cantante pop, una certa Angie Rodriguez, idolo delle adolescenti e non solo. Massimo e Enrico parvero piuttosto delusi nel vederla tornare ancora abbigliata con quei pantaloni di pelle di leopardo.
- Ehi, qui non siamo leali - protestò Massimo - siamo venuti in questo locale perché c’era Angie Rodriguez come cameriera. La pubblicità dice che dovresti essere in abiti succinti e invece hai ancora questi pantaloni!
- Mi spiace ragazzi, ma non avete raggiunta la quota minima nelle ordinazioni - rispose tranquilla il duplicato.
- Ha ragione Angie, Massimo! Dovevi leggere la postilla in fondo alla pagina del menù.
- Che postilla! - chiese sorpreso Massimo, mentre Tiziana e Irene se la ridevano.
- Ha ragione la signorina - aggiunse Angie con voce squillante - La postilla rimanda all’ultima pagina del menù. Leggi!
Con delusione crescente Massimo le due righe in fondo alla pagina:

* Per avere diritto alla cameriera in abiti succinti la consumazione minima è di 50 euro per tavoli singoli,  100 euro per tavoli da 5 persone, 200 in quelli da 10. I dettagli delle tariffe sono in ultima pagina.

L’uomo lesse il retro copertina. Una lista di abiti con i quali si sarebbe presentata la cameriera era affiancata da un relativo prezzo. Per vederla in calzoncini il tavolo avrebbe dovuto sborsare non meno di 220 euro. Più caro era il body e il bikini. Per non parlare del topless.
- Se vuoi te lo paghi tu Massimo! Noi siamo a posto così.
Irene e gli altri si misero a ridere, mentre sconfortato Massimo guardò nel portafogli constatando di non disporre della cifra necessaria.
Angie carezzò ironicamente la testa di Massimo e se ne andò, scatenando le risate di scherno dei presenti.
- Lo vedete qual è uno dei difetti di avere un duplicato per partner?
Tiziana lanciò il suo uncino verso le certezze degli amici. Erano sempre preoccupati delle sue riflessioni, che ogni volta aggiungevano dubbi che qualcuno avrebbe dovuto abbattere.
- Quale sarebbe questo ulteriore difetto?
- Osservate. Siamo cinque persone ad un tavolo. Di queste due sono duplicati, che non contribuiscono a pagare il conto del pub.
- Noi non ti stiamo simpatici, Tiziana - riprese deciso Terence - eppure facciamo di tutto per non farti mai sentire a disagio. Ti ascoltiamo tutte le volte che ci critici. Cosa dovremo dire di te, allora?
- Ti riferisci al mio lavoro, Terence?
- Tu sei come noi, Tiziana. Elimini dolore, esattamente come noi. Operi la memoria delle persone per non farle ricordare che siamo duplicati.
Tiziana rimase colpita. Era la prima volta che un duplicato le dava contro. Era ovvio che anche i suoi amici la pensavano come Terence. Era umiliante essere messa in minoranza da un bambolotto come quello. Bevve il suo bicchiere d’acqua gassata e si mise a ridere dentro di sé. Un euro e mezzo. Pensò alla cifra che aveva sborsato per la sua consumazione e a quanto poco aveva contribuito al divertimento di Massimo con il suo investimento così risicato.
- Terence non voleva offenderti.
Irene cercò in qualche modo di alleviare il malumore dell’amica. In quell’ambiente ormai Tiziana si sentiva sempre più segregata  e costretta a continue discussioni che forse avrebbe fatto meglio ad evitare.
Chiuse un momento gli occhi, in un attimo di svago dal mondo naturale. Poi li riaprì e lei ricomparve di nuovo.
Era entrata dentro il locale. Era bellissima con i suoi lunghi capelli neri splendidamente adagiati sulle spalle. Vide i presenti voltarsi verso di lei, attratti dal suo volto dolce e dalle sue gambe eleganti che uscivano dallo spacco della gonna.
Fu immobilizzata dalla visione di quel suo perfetto duplicato, di quella bellezza così arrogantemente mostrata al mondo, così leggera e consapevole di sé, come mai lei, che pure ne era l’originale, era mai riuscita ad avere.
Gli avventori erano abbagliati, in uno spettacolo di meraviglia che sedusse Tiziana e attirò gli sguardi dei suoi amici stessi.
Vide scomparire la donna in una delle salette interne del locale. Tiziana si alzò dal tavolo, attirando gli sguardi confusi dei presenti.
- Fermati. Le disse.
Il duplicato si voltò, mostrandole il volto come in uno specchio incapace di starsene semplicemente a riflettere.
Il duplicato le sorrise, con un gesto il più possibilmente teatrale  le gettò un bacio con la mano.
Tiziana si avvicinò al duplicato.
Questa si mise seduta, continuando a guardarla con dolcezza, senza quell’imbarazzo che invece Tiziana nutriva.
La donna, sua perfetta copia,  si mise seduta vicino al tavolo di un uomo. Smise di fissare Tiziana, iniziando la sua opera di seduzione del tizio seduto. Tiziana rimase in piedi, in un atteggiamento di disagio.
Il duplicato si voltò verso di lei:
- Mi spiace, ma non posso andarmene da qui. Lo capisci? Io non sono libera.
Una frase che la spiazzò e non solo perché pronunciata con la sua stessa voce. Cosa voleva dire che non era libera? Si sentì più imbarazzata che mai. Restare lì a vedere  quella sua copia parlottare così vicina a quell’uomo era insostenibile.
Tiziana si allontanò, riprese le sue cose, salutò gli amici.
Aprì la porta del locale. Una cameriera dal corpo di una vedette della televisione la fermò.
- E’ per lei, signora.
Era un biglietto. La donna con il suo volto le donò un ultimo fugace sguardo.
Il sorriso che le offrì pareva la cosa più naturale che avesse mai  visto in quel luogo.


7
- Sono dispiaciuta per come si è comportato Terence, credo che dovrebbe chiederti scusa.
- Non importa Irene, non voglio le sue scuse.
- Ne sei sicura?
- Assolutamente.
Irene le aveva telefonato proprio mentre aveva deciso di chiamare il numero sul biglietto datole da quella donna. Sapeva benissimo cosa intendesse per scuse. Quello di inviare i duplicati a scusarsi per conto dei propri padroni era un modo di fare che Tiziana non gradiva affatto. Era un modo per vantarsi del proprio schiavo: l’offeso si sfogava sul duplicato. Il mandante in quel modo mostrava agli amici ciò che il suo prodotto poteva offrire. Tiziana lo trovava disgustoso, ma non le andava di mostrarlo agli amici.
- Non trovo sensato riconciliarsi con una macchina.
Era il modo più efficace per troncare la discussione, per togliere ogni soddisfazione a Irene.
- Se insisti con questa linea finirai per non avere più amici! - la rimproverò Irene.
Tiziana ringraziò del consiglio, chiuse la comunicazione e  fece l’altro numero.
Rispose una voce maschile.
- Buonasera. In cosa posso soddisfarla?
Il tono era quello di un uomo in carne e ossa, troppo rozzo per essere un duplicato.
- Una donna mi ha dato questo numero.
- Intende avvalersi dei suoi servizi?
La colpiva quell’uso di un linguaggio intenzionalmente corretto, espresso da una voce così ruvida. L’uomo pareva aver appreso qualche tecnica di marketing da qualche corso telefonico, senza però essersi avvalso dell’opportunità di cambiare voce.
- Lei è il suo padrone?
- Lei chi è?
- E’ una domanda che non dovrebbe farmi.
- Che intende dire?.
- Che trovo strano che lei non mi conosca, dato che il suo duplicato ha la mia faccia e va in giro a fare la puttana!
- Non faccio niente di male, è tutto perfettamente legale.
- Sul fatto che sia legale ho i miei dubbi.
- Questo lo vedremo! Sono pronto ad affrontare una causa anche adesso.
- Ottimo, allora. L’aspetto in Piazza della Felicità alla prima cabina libera.
- D’accordo. Non ho niente da nascondere, io!
- Io invece si! E per colpa sua! Intendo convocarla per le quattro e mezzo!
- Accetto!

8
Piazza della Felicità era gremita come al solito. Si mise in fila per il suo turno alla cabina legale. L’uomo si presentò. Fu lui stesso a riconoscerla.
- Il fatto che non abbia avuto dubbi su chi potessi essere non depone a suo favore - esordì Tiziana - è segno che lei ha duplicato quella donna, consapevole che già esisteva il suo originale!
- Come le ripeto non ho assolutamente nulla da nascondere. E’ ovvio che lei non è a conoscenza delle moderne leggi sulla prostituzione. Glie lo dico per farle risparmiare tempo.
- Non si preoccupi del mio tempo. Voglio impedire questo uso scellerato della mia immagine.
Intanto era arrivato il loro turno alle cabine.
Entrarono dentro i rispettivi box. La voce del computer chiese la prima domanda:
- Tipo di causa.
- Penale! Rispose perentoria Tiziana.
La macchina continuò:
- Reato contestato.
- Sfruttamento della prostituzione! - proseguì la donna.
- E’ lei la vittima?
- Si, Vostra Imparzialità, l’uomo nella cabina degli imputati sta usando un duplicato esatto di me stessa. Ha la stessa mia faccia, il mio corpo, la mia voce. E va in giro a chiedere marchette per questo!
- Che cosa chiede l’accusatore?
- La soppressione del duplicato e un rimborso dei danni.
- Imputato, cosa ribatte?
- Mi appello alle recenti leggi sulla prostituzione, e alle nuove leggi sulla libertà imprenditoriale, che creano nuove opportunità di lavoro e investimento.
- Non ha altro da aggiungere?
- No, Vostra Imparzialità.
- I due convenuti vogliono rimanere anonimi?
- Si - risposero all’unisono.
- Bene attendete fuori. La sentenza sarà emanata in breve.
........(continua)......

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